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In Italia è quasi impossibile ricorrere all’aborto farmacologico

Nel caso dell’aborto farmacologico, ai ben noti problemi dell’accesso all’ivg in Italia (come l’obiezione di coscienza), si aggiunge un ulteriore ostacolo: la RU486 è oggetto di una vera e propria campagna di disinformazione ed è presentata come “l’aborto facile” o addirittura come “un veleno”. Il fatto poi che sia difficilmente reperibile sul territorio, rende questa pillola un oggetto ancora più alieno, nonostante per l’Oms sia più sicura dell’aborto chirurgico.
A cura di Jennifer Guerra
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Nell’agosto del 2020, nel pieno della pandemia di Covid, l’allora ministro della Salute Roberto Speranza decise di modificare le linee di indirizzo per la RU486, l’aborto farmacologico, che non erano mai cambiate dal 2009, anno in cui fu autorizzato dall’AIFA. In particolare, il termine per assumere la pillola è stato aumentato da 7 a 9 settimane di gestazione, è stata resa disponibile nei consultori e soprattutto è stato eliminato l’obbligo di ricovero, una scelta necessaria durante l’emergenza sanitaria in cui mancavano posti letto negli ospedali. La scelta del ministro fu salutata come una necessaria quanto attesa rivoluzione: all’estero, dove la pillola abortiva è disponibile da più di vent’anni, queste regole sono in vigore da tempo e addirittura l’OMS ne raccomanda l’uso fino a 12 settimane. Dopo 3 anni, però, la rivoluzione tanto attesa non è avvenuta e la pillola abortiva continua a essere un’opzione poco praticata e soprattutto poco disponibile.

L’associazione Medici del Mondo, che si occupa di diritto alla salute, ha recentemente pubblicato la ricerca The Impossible Pill (la pillola impossibile) con la quale ha cercato di capire perché l’aborto farmacologico in Italia sia ancora così inaccessibile. In Paesi come la Francia e il Regno Unito la RU486 è scelta nel 70% dei casi, mentre da noi solo il 32% delle donne ricorre alla pillola abortiva. L’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico avviene attraverso l’assunzione di due pillole a 48 ore di distanza l’una dall’altra: la prima è il mifepristone (la RU486) che causa l’aborto vero e proprio e la seconda è il misoprostolo, che causa le contrazioni uterine necessarie all’espulsione. Quando il suo utilizzo fu approvato in Italia (21 anni dopo la Francia) era previsto l’obbligo di ricovero di tre giorni, che però oltre l’80% delle donne non rispettava, firmando le dimissioni dall’ospedale dopo l’assunzione del primo farmaco. Le linee guida dell’OMS infatti non prevedono il ricovero, ma anzi ritengono che l’ivg farmacologica sia una procedura eseguibile anche a casa, in telemedicina.

Con le linee di indirizzo del 2020, l’Italia si sarebbe dovuta adeguare agli standard internazionali, ma così non è stato. A distanza di 3 anni, solo poche regioni hanno infatti formalmente recepito le nuove direttive ministeriali e altre hanno deciso addirittura di opporvisi. La Toscana è stata la prima regione ad adottare le linee guida, già a novembre del 2020, mentre l’Emilia-Romagna ha reso disponibile la RU486 in alcuni consultori con il limite delle 7 settimane. Il Lazio è stato l’unica regione che non solo ha recepito le linee guida, ma che ha anche messo a punto un protocollo specifico. In Piemonte invece l’assessore di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, lo stesso che ha promosso il Fondo vita nascente e la “stanza per l’ascolto” all’ospedale Sant’Anna di Torino, ha emanato una circolare di segno opposto che di fatto vieta ai consultori di somministrare la pillola. Questa situazione porta a profonde disuguaglianze territoriali e di fatto impedisce alla donna di scegliere quale metodo abortivo preferisca, cosa che la legge le consente di fare.

Secondo Marina Toschi, ginecologa della rete Pro-Choice intervistata nel report, il problema è che “Le linee di indirizzo sono rimaste una buona teoria. Di fatto è come se fosse un’indicazione generica che il Ministero ha chiesto alle Regioni di applicare, ma se non lo fanno non succede nulla, non c’è una spinta in positivo o un’ammenda”. L’aborto è però annoverato fra i LEA, cioè fra i Livelli essenziali di assistenza che lo stato è tenuto a garantire a tutti i cittadini (e non solo, visto che anche una persona senza permesso di soggiorno ha diritto a interrompere la gravidanza). Il problema è che mentre per altri tipi di servizi o procedure sanitarie considerate essenziali nessuno si sognerebbe mai di scegliere in modo arbitrario come, quando e se somministrarle, questo avviene puntualmente con l’aborto.

Nel caso dell’aborto farmacologico, ai ben noti problemi dell’accesso all’ivg in Italia (come l’obiezione di coscienza), si aggiunge un ulteriore ostacolo, che è quello di un pregiudizio ancora più forte. La RU486, sin dalla sua autorizzazione, è stata infatti oggetto di una vera e propria campagna di disinformazione ed è stata presentata come “l’aborto facile” o addirittura come “un veleno”. Il fatto che molte donne diffidino da quella che è una procedura considerata dall’Oms ancor più sicura dell’aborto chirurgico è aggravato dalla scarsa reperibilità sul territorio, che rende questa pillola un oggetto ancora più alieno. Nella conclusione del report, la giornalista Claudia Torrisi fa notare che le linee guida dell’Oms vanno nella direzione opposta di quella che ha intrapreso l’Italia, enfatizzando la libertà di scelta e il controllo che chi vuole abortire ha sul proprio corpo. Nel nostro Paese invece non solo la libertà di scelta viene negata a monte, ma anche quando concessa, viene comunque strettamente regolata dall’autorità sanitaria. Ormai è evidente che il diritto all’aborto non può essere soltanto “protetto”, ma vada implementato in ogni modo possibile. E l’aborto farmacologico è il terreno da cui partire.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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