
Raggiungere il quorum a un qualunque referendum è ormai diventato una specie di missione impossibile. Ogni discorso sulla campagna elettorale in corso, sulla copertura mediatica per l’appuntamento dell’8 e 9 giugno e, in generale, sullo stato di salute della nostra democrazia non può che partire da un assunto del genere. Perché, al di là del merito dei quesiti, delle scelte dei promotori, delle indicazioni della maggioranza e delle proteste delle opposizioni, appare sempre più urgente una riflessione sul maggiore strumento di democrazia diretta. Un ragionamento ineludibile, alla luce dei cambiamenti intercorsi negli ultimi decenni (la disaffezione cronica, lo svuotamento di senso del concetto di rappresentanza, le nuove modalità partecipative) e di alcune storture evidenti per quanto concerne la platea dei votanti e dunque la determinazione finale del quorum.
Tutta questa premessa non solo per dire che la possibilità che i referendum su lavoro e cittadinanza raggiungano il quorum è estremamente bassa. Ma anche per sottolineare come a volte la tendenza collettiva sia quella di concentrarsi su questioni di dubbia rilevanza, perdendo di vista il quadro d’insieme. In tal senso, la copertura marginale dei media e gli appelli all’astensione non dovrebbero essere considerati altro che sintomi di una malattia più grave: la rottura di quel patto sociale per cui i cittadini delegano decisioni ma con la consapevolezza di “contare qualcosa”, con l’idea che partecipare ai processi democratici possa fare tutta la differenza del mondo. È per questo che, anche se personalmente convinto della legittimità di un’astensione consapevole e scettico sull’utilizzo strumentale della polemica sugli appelli a non votare, chi scrive è particolarmente preoccupato per la serenità con cui l’opinione pubblico si stia rassegnando “a non essere informata” sui temi e sul valore della proposta referendaria.
Chi sta censurando il referendum?
I primi sondaggi tematici mostrano che il quorum è lontanissimo. Ma evidenziano anche un aspetto specifico: mentre oltre il 90% degli italiani sa che l'8 e 9 giugno si voterà per i referendum, oltre il 50% letteralmente non sa di cosa si stia parlando, quale sia il merito della questione e come potrebbe orientarsi alle urne. È evidente che la non conoscenza degli argomenti è uno stimolo importante per l'astensione. In questo contesto si colloca la polemica verso i mezzi di informazione mainstream, trattata a vario titolo dai giornali in questi giorni, come vi stiamo mostrando quotidianamente nella nostra Evening Review, la rassegna per chi ha scelto di sostenere Fanpage (che ancora per qualche tempo sarà gratis). Interessante, ad esempio, la lettura che Onofrio Introna fa sulla Gazzetta del Mezzogiorno:
Gli argomenti referendari che saranno oggetto del giudizio popolare sono rilevanti. Quattro riguardano il lavoro, obiettivo di vita per ogni individuo, famiglia, nucleo e la cittadinanza. Quello sulla cittadinanza investe un nodo di assoluta attualità, che si lega strettamente al problema stringente della denatalità in Italia e dell'invecchiamento della popolazione. I cinque referendum hanno raccolto ben più delle 500mila firme richieste per la presentazione delle proposte. […]
È inaccettabile anche se non sorprende la comunicazione debole della televisione pubblica. Trascurando il dovere d'informare correttamente, la Rai sta dedicando alla tornata referendaria notizie rarefatte, stiracchiate, indolenti. Negarle su un referendum regolarmente approvato con migliaia di firme, significa disconoscere il diritto di quei cittadini a un'informazione corretta, che possa aiutare gli altri a comprendere e quindi a decidere se esprimersi per il Sì, per il No o astenersi”.
È un aspetto centrale, quello di cui parlavamo all’inizio: non si può trattare con leggerezza l’assenza di un’adeguata informazione su uno strumento di tale rilevanza, né si possono accettare gli inviti a disertare le urne, senza pensare alle conseguenze sui processi democratici. Alessandra Agostino sul Manifesto lo dice con grande chiarezza:
Il voto in sé è strumento di democrazia, una delle forme del la democrazia. Sottolineo una, perché nell'era dell'oscuramento autoritario del dissenso e nei giorni della conversione del decreto legge sicurezza è necessario ribadire che la democrazia vive attraverso l'esercizio dei diritti, il pensiero critico e le mobilitazioni sociali; nonché – e qui entra in gioco il lavoro- la declinazione come sociale. Come strumento di democrazia dovrebbe essere "spinto" dalle istituzioni e non oggetto di inviti all'astensione e di un pesante "silenzio di Stato". Il referendum stimola e critica le istituzioni, in senso contro-maggioritario; è una forma di controllo popolare (Terracini) è strumento di raccordo fra società e circuito politico – rappresentativo; costringe i partiti a un maggiore contatto col popolo per i problemi concreti […] . Nell'odierno interregno contrassegnato da asfissia, esautoramento, incapacità, della rappresentanza e dei partiti, di connettere società e istituzioni, di dare risposte a rivendicazioni, problemi e conflitti che attraversano la società, esercita una funzione di supplenza. Non solo. Il referendum, se e quando nasce dal basso – altro discorso sono i pronunciamenti plebiscitari – ha un suo valore a prescindere dal rapporto con la rappresentanza, esprime effettiva partecipazione (art. 3 della Costituzione). Lungi dalla sirena populista del «dare dare la voce al popolo è concretizzazione di sovranità popolare, è partecipazione.
Nel merito, invece, la discussione potrebbe essere molto interessante, anche considerando l'estrema complessità di alcuni quesiti (altro tema, quello dell'intellegibilità delle domande che si fanno ai cittadini, su cui parrebbe essere necessario un supplemento di riflessione). Potremmo imparare tanto da discussioni sui temi del lavoro e comprendere, si spera, che la nostra legge sulla cittadinanza appare ogni giorno più antiquata e incapace di tenere dentro i bisogni e le necessità di decine di migliaia di persone che già vivono e lavorano nel nostro Paese. Ne scrive oggi Alfiero Grandi su Domani, in un pezzo in cui bolla l’astensione come “un errore” e ricorda “la vera posta dietro il voto”:
La convinzione delle destre che basta un loro No per con vincere gli elettori a non votare può essere delusa aiutando le persone a liberarsi da fedeltà ideologiche e politiche, perché nei referendum si vota per obiettivi ben precisi. Da troppo tempo i diritti di chi lavora sono stati indeboliti e la caduta del potere contrattuale ha portato a perdite di salario, al calo del monte salari complessivo e del potere di acquisto. Ridare a chi lavora diritti migliori con il Si nei referendum vuol dire tornare al reintegro a fronte di un licenziamento ingiustificato […] Vuol dire riportare i contratti a tempo determinato a un ruolo aggiuntivo rispetto al tempo indeterminato e solo per reale e motivata necessità, co-si è importante scoraggiare il licenziamento nelle piccole imprese […]
Dovremmo essere tutti d'accordo che l'Italia ha bisogno di mano d'opera straniera e che occorre costruire canali regolari di ingresso in Italia. Cosa c'è di meglio che consentire in un tempo ragionevole a chi arriva da altri paesi di vivere e lavorare regolarmente in Italia, di viverci con la famiglia, di crescere i figli, di imparare la lingua e di essere trattato come i cittadini italiani? Ridurre da 10 a 5 anni il periodo per chiedere la cittadinanza italiana, ferme le altre regole, è una scelta di civiltà che porterà a integrare persone di cui l’Italia ha bisogno.
Ecco, forse è il tempo di tornare a discutere di questioni del genere, più che di polemiche di basso cabotaggio come quelle che, invece, affollano telegiornali e prime pagine. Interrogarci sulle storture del nostro mercato del lavoro, sugli errori del passato e sulle brutture del presente. O riflettere su "cosa stiamo difendendo e da chi" quando ci ostiniamo a trincerarci dietro concetti come "la cittadinanza italiana va guadagnata" e fingiamo di non vedere la realtà per quella che è.
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