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Gruppo Mia Moglie, Grassadonia: “Chi non denuncia è complice, leggi non bastano, subito educazione affettiva a scuola”

In un’intervista a Fanpage.it Marilena Grassadonia, Responsabile Diritti e Libertà di Sinistra Italiana, commenta il caso del Gruppo Facebook Mia Moglie, chiuso da Meta: “Non si può pensare di affrontare solo con leggi punitive, bisogna lavorare sull’educazione all’affetto, alla sessualità, al consenso, all’interno delle scuole”.
A cura di Annalisa Cangemi
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La pagina Facebook ‘Mia Moglie', che contava circa 32mila iscritti, è stata chiusa mercoledì 20 agosto da Meta, con la motivazione di "violazione delle policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti", dopo le segnalazioni di diversi utenti indignati. Ma la vicenda non si è conclusa qui. La polizia postale di Roma è intervenuta per bloccare la pagina in cui dal 2019 in tanti avevano condiviso foto intime di donne, ignare compagne e mogli, che non avevano mai dato il consenso per la pubblicazione di quei contenuti, utilizzati dagli utenti come bottino di cui vantarsi, offrendoli al branco per favorire commenti volgari e sessisti.

"Anni 30, altezza 1.81, peso 59, seno (naturale) 4, body count 1", e quest'ultima espressione ‘body count' si riferisce al numero di uomini con cui la donna avrebbe avuto rapporti sessuali. Si prosegue con un altro commento: "Una body count 1 ha un valore aggiunto che non la rende scambiabile, per tutti quelli che me lo chiedono su messenger". Passando in rassegna il campionario di questi beceri commenti, che sono stati ‘screenshottati' prima che la pagina venisse chiusa, si leggono espressioni triviali e oggettificanti, come "Complimenti ha un bel numero di targa, è una bellissima moglie", e ancora "Mettile le mani tra le cosce vedrai che si sveglia", riferito a un'immagine di una donna che dorme. Per poi passare a un invito esplicito a dare libero sfogo alle proprie fantasie sessuali: "Ciao, cosa fareste a mia moglie?". E commenti spinti in cui i ladri di foto vengono incitati dagli altri uomini, come ‘Glielo butto?, e la risposta ‘Che aspetti, complimenti per la tua signora, se poi vuoi un aiutino fammi un fischio'.

Una vera e propria violenza di gruppo, agita in modo deliberato e reiterato, e su cui adesso la polizia postale sta indagando, dopo aver raccolto decine di denunce delle vittime e i nomi di chi ha commentato e condiviso quelle immagini, sentendosi intoccabili. Ma pubblicare quel materiale è un reato: questi utenti possono perseguiti per diffamazione alla diffusione di materiale intimo senza consenso.

La pagina era aperta a tutti, ma quando è stata portata all'attenzione delle autorità e dell'opinione pubblica dall'organizzazione no profit "no justice no peace" e dalla scrittrice Carolina Capria. Poi, quando gli animatori della pagina – che nel maggio 2025 avevano preso il controllo del gruppo pubblico, creato appunto nel 2019 da un utente di Facebook che non risulta più attivo sul proprio account personale da quello stesso anno – si sono accorti di essere stati scoperti, si sono spostati altrove, cominciando a diffondere link di indirizzi Telegram segreti, in cui poter proseguire con la loro attività indisturbati.

Abbiamo chiesto a Marilena Grassadonia, Responsabile Diritti e Libertà di Sinistra Italiana, un commento sul caso, che non è altro che la punta di un iceberg, di un fenomeno molto profondo e radicato nella cultura italiana: quello del patriarcato.

Cosa ha pensato quando ha saputo dell'esistenza del gruppo Facebook ‘Mia Moglie'?

Ho provato molta rabbia, anche se quello che è accaduto in qualche modo non ci sorprende, perché si ripropone una situazione molto frequente, in cui si mettono in moto dinamiche non solo patriarcali e maciste, ma anche da branco, ed è su questo secondo me, che dobbiamo riflettere profondamente. Mettere alla berlina, mettere in piazza la propria donna, la propria partner, la propria moglie, la propria fidanzata, offrendola in pasto a uomini che considerano quella donna come un oggetto su cui esprimere un un giudizio, provoca in chi agisce questa violenza un certo orgoglio. Mostrare la donna come un trofeo, scoprire che quella donna può essere appetibile per altri, quando invece è "solo mia, è solo di mio possesso" è una tipica dinamica da branco, ed è quella che va scardinata.

Cosa bisogna fare?

Bisogna assolutamente partire da una un'azione profondamente culturale, sul consenso, smontando la cultura del possesso. Non si può pensare che una donna, anche se è tua moglie, anche se è la tua fidanzata, la persona con cui hai stabilito una relazione nella tua vita, possa essere utilizzata in quel modo. Quindi l'aspetto culturale è fondamentale. Sono certa che all'interno di quel gruppo Facebook di oltre 30.000 persone – i numeri sono da brividi – ci possono essere anche persone che da sole non farebbero mai quel tipo di azione, che invece si scatena in una situazione da spogliatoio di calcetto.

Quanta consapevolezza c'è secondo lei in questi utenti che frequentavano la pagina? Alcuni dicono di aver solo ‘guardato' i contenuti, come se questo fosse meno grave…

La cosa che colpisce non è tanto l'inconsapevolezza dei partecipanti, ma il fatto che in tanti si sono imbattuti in quella pagina, e pur essendosi limitati a navigare passivamente e a guardare i contenuti rubati, non hanno fatto nulla. In qualche modo così sono diventati complici di quel meccanismo, perché magari non hanno gli strumenti per provare a scardinarlo, o non vogliono averli. Ma se io sto dentro un gruppo in cui si agisce una violenza fisica, verbale, psicologica, e non faccio nulla per fare in modo che quella violenza si fermi, allora sono complice. Per questo io penso che ci sia un lavoro da fare non solo culturale, ma collettivo.

Questo gruppo tra l'altro era stato aperto nel 2019, ed è stato portato all'attenzione dell'opinione pubblica soltanto adesso. Cosa significa? 

È scioccante che nessuno di questi 30mila utenti si sia reso conto prima che il gruppo andava segnalato alla polizia. Ma ce ne sono tanti di piccoli gruppi come questo. Poi è chiaro che un gruppo virtuale ha molta più possibilità di raccogliere persone che lo frequentano in maniera passiva.

Meta ha chiuso il gruppo Facebook dopo le polemiche, però nel frattempo gli organizzatori hanno subito annunciato la creazione di altri gruppi più protetti, con dei criteri di ingresso più stringenti, quindi il fenomeno non non si è fermato. Come è possibile che ci sia questo senso diffuso di impunità secondo lei? Non basta che il revenge porn sia stato inserito nel 2019 nel Codice penale, all'articolo 612 ter, con un riferimento proprio alla "diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti?", in assenza di consenso?

È chiaro che c'è da parte della politica una mancanza di attenzione sul tema, che non si può pensare di affrontare solo con leggi punitive. L'abbiamo visto con la legge contro i femminicidi, che per me ha una valenza più simbolica che altro. Se si lavora solo sull'aspetto punitivo vuol dire che non si è compreso fino in fondo il problema. Bisogna lavorare sull'educazione all'affetto, alla sessualità, al consenso, all'interno delle scuole. Per me quello è il nodo centrale.

Se non si parte da quello, non possiamo mai pensare che questi fenomeni di violenza, che possono essere 30.000 persone all'interno di un gruppo Facebook o su una chat di Telegram, situazioni che si creano in uno spogliatoio, in un bar, durante un'uscita tra amici, possano essere sradicati senza lavorare sulla parte formativa e culturale all'interno delle scuole. Poi certamente è importante anche la parte legislativa e penale, è fondamentale che queste azioni non vengano derubricate a ‘ragazzate'. Ricordo che nelle scuole scuole ci sono giovani che decidono di togliersi la vita per essere finiti nel tritacarne dei social, nella pubblica piazza virtuale. Il meccanismo è lo stesso che abbiamo visto nel gruppo ‘Mia Moglie'. Quando un ragazzo gay, una ragazza transgender, o una ragazza cis, vedono le proprie immagini intime diffuse nelle chat dei telefonini della classe, posso arrivare al suicidio, e purtroppo di casi così ne conosciamo tanti.

In Italia non solo l'educazione affettiva non è obbligatoria a scuola, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, ma il governo vuole anche tornare indietro e sta andando in direzione opposta, introducendo il consenso informato obbligatorio dei genitori per attività che riguardano temi che riguardano l'educazione sessuale a scuola.

Sì, si sta andando verso una direzione assolutamente opposta, in cui si minimizzano queste situazioni, non si pone la giusta attenzione sul problema. Questa proposta di legge sul consenso informato oggi per fortuna è ancora in  commissione Cultura alla Camera. Sappiamo che la maggioranza ha i numeri per portarla avanti, ma con le altre opposizioni noi di Avs siamo riusciti a rallentare l'iter e ad aumentare il numero delle audizioni. Ce ne saranno altre all'inizio di settembre, cercheremo di fare di tutto per ostacolare questa proposta di legge.

È un'impostazione culturale totalmente sbagliata, la scuola deve essere il luogo principe su cui agire per fare in modo che chiunque, a prescindere dalla famiglia che ha alle spalle, possa trovare gli strumenti giusti per provare a crescere, sviluppando una consapevolezza rispetto all'educazione alle relazioni. Ma sappiamo che la parola ‘sessualità' spesso fa saltare sulla sedia gli ipocriti benpensanti, ma in realtà è quello con cui abbiamo a che fare ogni giorno della nostra vita. Chiamiamola affettività, chiamiamole relazioni, chiamiamolo consenso, ma non si può pensare che siano i genitori a decidere se il proprio figlio o figlia possano seguire o meno un corso di educazione l'affettività a scuola. La scuola deve fare questo per tutti e tutte, e questa deve diventare una materia curriculare all'interno del percorso scolastico.

Questa vicenda ha fatto venire in mente il caso di Gisèle Pelicot, che il marito ha drogato per anni per violentarla e farla violentare da decine di uomini. Secondo lei in Francia c'è stata un'ondata di indignazione maggiore, rispetto a quella che c'è stata in questi giorni in Italia? Siamo meno sensibili a queste storie di abusi e violenze contro le donne?

Sì, purtroppo osserviamo che in Italia non c'è stata la stessa sollevazione di indignazione che c'è stata in Francia, se si escludono alcune bolle social, molto circoscritte, e che sono quelle che di solito sono sempre attente a questi temi. Magari perché il caso è scoppiato nel momento dell'anno in cui c'è meno attenzione ai temi sociali, in mezzo alle ferie e alle vacanze, non abbiamo visto una manifestazione di piazza. Ci sono state sì alcune prese di posizione, ma ovviamente nulla di paragonabile rispetto a quello che è accaduto in Francia. Purtroppo siamo un po' assuefatti anche dalle politiche di questo governo, credo che le cose siano strettamente connesse. Se il ministro dell'Istruzione dichiara che e non è vero che esiste il patriarcato, perché è finito nel nostro Paese, allora c'è un problema. È un problema culturale, ed è un problema proprio di posizionamento politico.

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