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Crisi di governo 2019

Governo PD M5s, perché Zingaretti e Di Maio (ancora) non trovano un accordo

Dal ruolo di Giuseppe Conte al destino politico di Luigi Di Maio, passando per la composizione del nuovo esecutivo, fino ad arrivare alla distanza sui programmi e alla cancellazione di provvedimenti centrali del governo precedente: proviamo a capire quali sono gli ostacoli alla chiusura della trattativa fra PD e Movimento 5 Stelle.
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La versione ufficiale della trattativa PD – M5s è sempre la stessa: Nicola Zingaretti insiste sul concetto di “discontinuità col passato” su nomi e programmi, Luigi Di Maio su quello di “rispetto” per il Presidente del Consiglio uscente Giuseppe Conte. Da giorni le posizioni sembrano cristallizzate e, man mano che si avvicina la scadenza dettata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fra gli addetti ai lavori si alternano ottimismo e pessimismo, a seconda dei retroscena, delle indiscrezioni e delle dichiarazioni a mezza bocca di esponenti di secondo e terzo piano del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle. Il dibattito pubblico, con buona ragione, si concentra sul nome dell’inquilino di Palazzo Chigi, rilevando come non si sia fatto alcun passo avanti rispetto all’avvio della trattativa.

Molto, per non dire tutto, ruota intorno al futuro di Giuseppe Conte. Il Movimento 5 Stelle insiste nel considerarlo l’unico nome per la poltrona di Presidente del Consiglio, nel Partito Democratico ci sono posizioni diverse, ma per ora Nicola Zingaretti tiene il punto: Conte non va bene, serve un chiaro segnale di discontinuità a partire dai nomi. Tutto chiuso, dunque? Niente affatto, perché la pressione dei renziani, delle altre minoranze e di alcuni nomi molto pesanti interni alla segreteria stanno lentamente scalfendo le certezze di Zingaretti, che nelle ultime conferenze stampa ha parlato di “discontinuità sui contenuti e sulla squadra”, dicendosi fiducioso sul fatto che si possa “trovare una soluzione ascoltandosi a vicenda”. Cosa intendesse dire non è chiarissimo, ma in queste ore si lavora per trovare un compromesso che soddisfi le parti in causa. Le alternative sono sostanzialmente tre, a partire dalla più probabile:

  1. il Partito Democratico cede sul nome di Conte, in cambio di una robusta rappresentanza in consiglio dei ministri (si parla di vicepresidente, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Interni e Trasporti), dell’esclusione di Luigi Di Maio dalla squadra e della garanzia;
  2. il Movimento 5 Stelle abbandona Conte e accetta la proposta Fico, Di Maio resta al timone del ministero del Lavoro e ottiene la conferma di alcuni fedelissimi nei posti chiave;
  3. la trattativa salta.

Poche ore fa, dopo una riunione interna, il capogruppo del Partito Democratico al Senato Andrea Marcucci ha infatti spiegato come (ora) "non ci sono veti su Conte", un ulteriore segnale del fatto che il partito stia spingendo affinché il segretario declini "in altri modi" il concetto di discontinuità. E qui si passa al secondo nodo, quello del programma e dell'agenda di governo. Nonostante ci sia una evidente convergenza tra l’impianto dei 10 punti di Di Maio e dei 5 di Zingaretti, il primo motivo di scontro è rappresentato dall’eredità del governo precedente. I democratici chiedono esplicitamente che il M5s si impegni a cancellare (ovvero “superare”) i decreti sicurezza, a valutare il modo di tornare indietro sulla riforma della legittima difesa e a chiarire una serie di “ambiguità” sulle grandi opere (ogni riferimento a TAV e gronda di Genova non è casuale); in aggiunta, si chiede un pre-accordo sulla prossima legge di bilancio, che dovrà essere impostata sui criteri della responsabilità (nessuno sforamento e nessun braccio di ferro con la UE) ma soprattutto della redistribuzione (e qui vanno superate resistenze tanto in casa 5 Stelle che in area renziana). Non è una questione di poco conto, considerato anche che il tempo per trovare un accordo è poco e, soprattutto, che Zingaretti non vuole in alcun modo sentir parlare di contratto di governo. Il segretario lo ha spiegato più volte: il contratto non va bene né dal punto di vista del metodo (un accordo scritto e vincolante che influenza le dinamiche parlamentari è giudicato irrispettoso della prassi istituzionale e svilente nei confronti di deputati e senatori) né da quello dell'efficacia, perché resterebbero "due partiti distinti con due programmi distinti", con conflittualità per forza di cose irrisolte. Serve un programma comune, insistono da Nazareno. Non ci fidiamo del PD, serve un contratto scritto, ribattono in casa 5 Stelle. Sullo sfondo, sempre la questione del taglio dei parlamentari: un accordo è possibile, con l'allungamento dei tempi e l'inserimento della riforma in un "progetto più ampio", ma serve un passo in più da parte di entrambi.

Infine c'è la questione dell'orizzonte politico. Zingaretti e Di Maio sanno che la strada è stretta perché nessuno di loro controlla completamente i gruppi parlamentari. E, dunque, con un accordo di questo tipo si rischia di creare un governo debole, soggetto ai ricatti e alle pressioni di soggetti diversi, non sempre affidabilissimi. L'incubo di trovarsi in mezzo al fuoco amico alla prima difficoltà, costretti magari a elemosinare il supporto di Forza Italia per tenere in piedi la legislatura a ogni costo, è vivo e presente nei due, che stanno in queste ore cercando garanzie all'interno dei rispettivi partiti. In più, il 2022 è più vicino di quanto sembri e nei dialoghi di queste ore deve necessariamente trovare posto la discussione sul nome del prossimo Presidente della Repubblica, o almeno sui criteri per giungere all'individuazione di una figura adatta ai tempi e al contesto. Mica semplice.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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