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Fioramonti: “Passo indietro togliere il Rdc, dobbiamo ridurre le ore di lavoro a parità di salario”

L’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti partecipa alla Beyond Growth Conference Italia 2024, che si terrà il 19 e 20 aprile a Roma. Lavoro, sviluppo sostenibile, post-crescita e decrescita, crisi climatica, sono i temi al centro della conferenza. Ne abbiamo discusso con l’economista: “Dobbiamo mettere in discussione il modello di crescita”, ha detto in un’intervista a Fanpage.it.
A cura di Annalisa Cangemi
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Lavoro, welfare, sviluppo sostenibile, post-crescita e decrescita, crisi climatica. Lorenzo Fioramonti, economista, ex membro del Parlamento ed ex ministro dell'Istruzione del governo Conte II, che ha lasciato il dicastero di Viale Trastevere in polemica con il governo di allora per gli esigui finanziamenti destinati dalla manovra 2020 alla scuola, partecipa come relatore alla Beyond Growth Conference Italia 2024, che si terrà il 19 e 20 aprile a Roma, alla Camera e alla Città dell’Altra Economia. Una due giorni pensata per riflettere sui modelli di consumo, ormai obsoleti, e per capire come mettere in discussione l'attuale modello di crescita. L'ex ministro, direttore fondatore dell'Istituto per la Sostenibilità dell'Università del Surrey, in un'intervista a Fanpage.it parla delle sfide che ci troveremo inevitabilmente ad affrontare nei prossimi anni, e di come l'Italia debba mettersi al centro di questo dibattito globale, se non vuole rischiare di rimanere indietro.

È stato alla guida di Viale Trastevere durante il governo Conte II per soli 4 mesi. Perché ha lasciato l'incarico?

Non sono stato messo in condizione di lavorare bene. In realtà sono stato lì per quasi due anni, perché ho fatto il viceministro per oltre un anno. Secondo gli accordi la mia nomina a ministro avrebbe dovuto significare un completo cambio di registro. Questo non è avvenuto assolutamente, anzi i fondi sono diminuiti. Ne vediamo gli effetti tutti i giorni, questo è lo stato della scuola italiana. Purtroppo la situazione non è cambiata.

Ora vive all’estero, in Inghilterra. Tornerebbe in Italia per fare politica? 

Io vivo in Inghilterra, dove ho fondato e gestisco un istituto di ricerca presso un'università inglese a Londra, con 200 ricercatori, di cui 80 italiani. Tornerei in Italia? Sì tornerei, anche gratuitamente, perché amo il mio Paese, l'ho detto più volte, per realizzare un progetto simile, cioè creare l'università del futuro.

Ha detto che nelle università italiane c’è ancora un sistema medievale di scambio di favori. Cosa pensa che dovrebbe cambiare?

Servirebbe una cultura accademica completamente diversa, una rigenerazione. Se dovessi tornare a fare il ministro, proporrei un anno zero dell'università. Andiamo a vedere chi davvero si merita di stare dietro una cattedra. Chi non se lo merita, lo mandiamo via e facciamo arrivare quelli che invece sono davvero in grado di portare avanti una cultura accademica diversa. Assumere la gente sulla base delle competenze, non delle amicizie, dei favori, dei legami personali. 200 ricercatori assunti in Inghilterra, non ne conoscevo uno. Non esiste questo concetto. Abbiamo i nostri rettori che fanno andare avanti e promuovono chi è davvero competente, non chi è fedele. Ecco, questa cultura va cambiata. Purtroppo se non la cambiamo rischiamo che anche i giovani accademici italiani si abituino a ripercorrere e perpetuare questo tipo di mentalità.

Da ex ministro dell’Istruzione, come valuta la proposta di Valditara e Salvini di fissare un tetto per gli studenti stranieri nelle classi? È davvero realizzabile l’idea di creare classi a maggioranza di italiani?

È una proposta anti-educativa. Io capisco anche perché alcuni possano pensare che limitare il numero degli stranieri nelle aule sia un modo per tutelare la cultura italiana. Ma la cosa più bella in realtà è la diversità. I miei figli parlano cinque lingue, noi stiamo imparando il rumeno a casa. Ogni volta che c'è un bambino straniero lo invito a venire a casa nostra e a parlare la sua lingua, e insegnare anche quattro o cinque parole ai miei figli. La cosa più bella è acquisire conoscenze. Se i miei figli fossero in un'aula di una scuola pubblica con dieci, quindici, venti bambini di tutte le parti del mondo, sarebbe bello che imparassero tutti le loro culture. Sarebbe un'educazione nuova. E questo è quello che dovremmo fare. Nel resto del mondo ormai le scuole di carattere internazionale sono diffusissime. In Italia invece no. Ecco, rischiamo di diventare provinciali su tutto. Una cosa è mantenere l'ordine nell'aula, su questo siamo d'accordo. Bisogna mantenere numeri bassi, ma non dividere stranieri da italiani.

Il capitalismo è arrivato a un punto di rottura. Concetti come post-crescita o decrescita, che mettono al centro il benessere delle persone, possono essere applicati in questo momento al sistema economico italiano?

Il modello economico italiano in realtà sta messo meglio degli altri da questo punto di vista. Noi abbiamo una cultura del benessere, abbiamo la cultura del godersi la vita, abbiamo la cultura del piacere delle cose, che è sempre stata parte della nostra tradizione. Se le recuperassimo faremmo molto bene. Noi dobbiamo mettere in discussione il modello di crescita. La crescita oggi, tra l'altro, non c'è più. Quindi anche la volessimo, non avviene più, perché sono cambiati i modelli di consumo. Oggi consumiamo molto di meno, usiamo le cose molto di più. Abbiamo un apprezzamento diverso per le attività di acquisto e per i tempi della vita. E quindi sarebbe bello che l'Italia si mettesse al centro di questo dibattito invece che rimanere nella periferia.

Una proposta come quella di ridurre le ore lavorative, con la settimana corta, è una strada percorribile?

Sicuramente sì. Noi dobbiamo ridurre gli orari di lavoro a parità di salario. Dobbiamo farlo perché tutto ciò non soltanto fa bene alle persone e alla società, ma anche crea dinamiche virtuose. La gente non è che quando non lavora poi sta a casa a non fare nulla. Molto spesso si dedica di più alla famiglia, molto spesso fa una famiglia – perché molti giovani non sono neanche in condizione di poterlo fare, non hanno tempo, non hanno disponibilità economica – si dedica alla comunità, si dedica a migliorare la qualità di vita degli altri. Abbiamo bisogno di tanti milioni di italiani che si cominciassero a prendere cura del proprio Paese. E questo non lo si può fare quando si lavora in media più degli altri. In Europa noi lavoriamo in media di più, guadagniamo di meno, ma lavoriamo di più.

L’Italia è uno dei cinque Paesi Ue, insieme a Danimarca, Austria, Finlandia e Svezia, che non ha un salario minimo nazionale. Pensa che un salario minimo per legge e un Reddito Universale di Base possano aiutare a superare l’attuale modello di welfare basato sulla crescita economica?

Noi sicuramente abbiamo bisogno di un salario minimo. Credo sia una questione anche di civiltà. Se continuiamo a pensare che pagare poco le persone sia il futuro, verremo distrutti dalla competizione di Paesi che da questo punto di vista fanno molto meglio di noi. India, Cina e tanti altri paesi africani e asiatici. Invece dobbiamo fare in modo che l'Italia sia uno di quei Paesi dove il valore aggiunto dell'attività lavorativa è molto alto. Quello di cui poi abbiamo bisogno, e ne avremmo bisogno in futuro, è un salario minimo garantito, una forma di reddito di cittadinanza. Questo sarà inevitabile a un certo punto, in tutte le democrazie avanzate. L'Italia dovrebbe cominciare a discutere di come realizzarlo. Con il Reddito di cittadinanza ci si è provato, uno strumento importante, sicuramente migliorabile. Noi dovremmo arrivare a pensare a come fare in modo che il modello di consumi cambi, sia compatibile con la sostenibilità dei nostri consumi e con i cambiamenti climatici, ma anche con le disuguaglianze che sono ormai dirompenti. Questo avverrà comunque, che ci piaccia o meno. Dobbiamo decidere se essere quelli che lo ricevono o quelli che in qualche modo, in maniera più più accorta, sono in grado di realizzarlo prima degli altri.

Lei ha sempre sostenuto che il problema delle disuguaglianze in Italia è centrale, anche per la crisi climatica. Il governo Meloni, cancellando il Reddito di cittadinanza, ha peggiorato la situazione?

Assolutamente sì, abbiamo fatto un passo indietro. Che il modello del Reddito di cittadinanza fosse migliorabile non ci sono dubbi. Era una sperimentazione, era la prima volta, quindi il governo avrebbe potuto dire ‘voglio ritoccarlo, voglio rivedere i parametri, voglio fare in modo che ci siano meno abusi'. Tra l'altro è molto meno abusato di qualunque altra forma di sussidio che c'è in Italia. Perché dalle borse di studio per le università a qualunque altra forma di sussidio, come le pensioni di invalidità, in Italia ci sono sempre i furbetti. Però sembrava che i furbetti si scoprissero solo per il Reddito di cittadinanza. Quindi sicuramente abbiamo fatto un passo indietro. Ma guardi, i governi ci arriveranno a un certo punto a capirlo. Il problema dell'Italia è che noi le cose le capiamo con venti trent'anni di distanza, e quando le capisci più tardi degli altri sei sempre molto, molto indietro.

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