Ddl Femminicidio, perché 80 giuriste sono contrarie al nuovo reato

Una proposta di legge per introdurre nel codice penale italiano un nuovo reato autonomo di femminicidio: per molti un gesto politico necessario, per altri una svolta attesa. Ma non per tutte. Ottanta penaliste, docenti universitarie e studiose del diritto, hanno infatti firmato un appello contro il disegno di legge che per il Governo sarebbe una risposta "forte" all'emergenza della violenza di genere. Un "no" che colpisce, perché arriva proprio da chi, quotidianamente, studia, analizza e combatte il fenomeno del femminicidio con gli strumenti del diritto. E proprio per questo, spiegano, sanno riconoscere quando una riforma è solo un segnale, e non una soluzione. Nel testo presentato dal Governo si prevede infatti la creazione di un reato specifico per l'uccisione di una donna in quanto donna, con pena fissa dell'ergastolo, senza possibilità di attenuanti. Un inasprimento che, secondo le firmatarie dell'appello, non solo rischia di essere inutile sul piano pratico, ma anche dannoso sul piano giuridico e culturale. Non è in discussione, precisano, la necessità di contrastare in modo deciso e sistematico la violenza contro le donne. Ma proprio perché la violenza maschile ha radici profonde, culturali e strutturali, la risposta non può limitarsi all'aumento delle pene o alla creazione di un "reato bandiera". Il rischio è quello di dare l'illusione di un cambiamento, senza toccare davvero le cause che rendono possibile e frequente l'omicidio di una donna da parte di un uomo che dice di amarla.
"Non serve un reato nuovo per punire il femminicidio", spiegano le penaliste, "Servono politiche efficaci per prevenirlo". La presa di posizione, argomentata in un documento che sarà consegnato alla Commissione Giustizia del Senato, mette in discussione l'impianto stesso del disegno di legge: non perché non riconosca la gravità del fenomeno, ma proprio perché la riconosce davvero. La violenza di genere non si combatte solo con il diritto penale, ma con interventi più complessi: educazione, prevenzione, formazione delle forze dell'ordine, sostegno economico e psicologico alle vittime, investimenti nei centri antiviolenza. Tutti elementi assenti, o marginali, nel testo presentato dal Governo.
Ecco perché, paradossalmente, questo "no" non è un passo indietro nella battaglia contro la violenza di genere. Ma un invito a fare meglio, e come sottolineato, sul serio.
Un testo nato da dentro la battaglia, non contro la battaglia
Il documento, nato da un nucleo di sette docenti e rapidamente condiviso con colleghe di tutta Italia, verrà presentato ufficialmente in Commissione Giustizia al Senato. La sua portata è tanto politica quanto culturale: non si tratta, chiariscono le firmatarie, di un "no" ideologico o di facciata, ma del rifiuto di un'operazione che appare più propagandistica che concreta.
"Non siamo contrarie al riconoscimento della violenza di genere", spiega Virgilio, "ma riteniamo che questa proposta rischi di semplificare un problema molto più complesso, ignorando del tutto la dimensione della prevenzione, fondamentale secondo la Convenzione di Istanbul e le principali raccomandazioni internazionali".
Il nodo della prevenzione: grande assente nel disegno di legge
È proprio l'assenza di misure strutturali di prevenzione, educazione e intervento sociale che preoccupa, infatti, le penaliste. La violenza sulle donne, ricordano, è un fenomeno sistemico, che ha radici nella cultura patriarcale e nelle dinamiche di potere diseguali che permeano ancora molti ambiti della vita sociale. Affrontare, dunque, il tema soltanto dal punto di vista punitivo, magari aggravando sanzioni già esistenti, senza intervenire a monte sul contesto che rende possibile e reiterata quella violenza, è secondo loro un errore. Un errore che può illudere l'opinione pubblica di aver "risolto" il problema, mentre in realtà si continua a ignorarne le radici.
Il reato esiste già, e l'ergastolo pure
Un altro punto sollevato nell'appello riguarda la reale necessità di un nuovo reato. Già oggi, sottolineano le firmatarie, l'ordinamento penale consente di punire l'uccisione di una donna per motivi di genere con la massima pena prevista: l’ergastolo. La novità contenuta nel Ddl, ovvero la previsione obbligatoria del carcere a vita, non solo è ritenuta inutile, ma anche lesiva di alcuni principi fondamentali del diritto penale: "Introdurre una pena fissa e inderogabile", osserva Tordini., "va contro il principio di individualizzazione della pena e soprattutto contro l’idea, costituzionalmente garantita, della funzione rieducativa della sanzione".
Il rischio del "reato manifesto"
Ma c'è un aspetto ancora più critico: la valenza simbolica della proposta. Se la norma, spiegano le giuriste, non contribuisce in modo effettivo a migliorare la tutela delle vittime, allora rischia di essere un "reato manifesto", cioè una norma dal forte impatto mediatico ma debole sul piano giuridico e pratico. Un rischio, insomma, tutt'altro che teorico. I dati provenienti da Paesi in cui il reato di femminicidio è già stato introdotto (come Messico, Argentina, Brasile) mostrano infatti che l'incidenza degli omicidi di donne non è diminuita in modo significativo. Anzi, in alcuni casi è aumentata.
Una risposta debole a un problema strutturale
L'appello si chiude con un invito al Governo e al Parlamento: aprire un confronto serio, approfondito, non ideologico. Le firmatarie chiedono una riforma vera, che guardi al fenomeno nella sua complessità e che affronti con coraggio i nodi più scomodi: la diseguaglianza strutturale tra i generi, la discriminazione nelle dinamiche sociali e lavorative, la sottovalutazione culturale del ruolo e della parola delle donne.
"Serve una strategia articolata", si legge, "che agisca sulle cause profonde della violenza maschile, e non solo sulle sue conseguenze più estreme. Una legge che riduca davvero i femminicidi è quella che li previene, non solo quella che li punisce".