
Da qualche tempo vi sto raccontando come Giorgia Meloni stia cercando, con grandissima difficoltà, di uscire dall’impasse in cui è finita dopo aver puntato quasi tutte le sue fiches su Donald Trump e sulla nuova amministrazione americana, convinta di essere alla vigilia dell’implosione politica dell’Unione Europea. L’imprevedibilità delle scelte del tycoon e il complesso quadro geopolitico, invece, sembrano aver prodotto una certa compattezza tra le maggiori potenze del Vecchio Continente, e, come effetto collaterale, un certo scetticismo sull’affidabilità del governo italiano. Non tornerò sulle angosce della presidente del Consiglio delle ultime settimane, sulle mancate photo-opportunity o sulla più pesante assenza ai vertici sull’Ucraina, ma è interessante rilevare l’enorme sforzo fatto dalla comunicazione di Palazzo Chigi per limitare il danno d’immagine, soprattutto tra l’opinione pubblica di casa nostra.
A dare una mano ci ha pensato papa Leone XIV, inconsapevolmente, sia chiaro. La sua cerimonia di insediamento, infatti, ha consentito a Meloni la possibilità di riprendere in mano l’iniziativa e rimediare allo smacco subito in occasione dei funerali di Bergoglio. Così, a Palazzo Chigi è andato in scena un trilaterale di una certa rilevanza, con la partecipazione del vicepresidente USA JD Vance (spalleggiato dal segretario di Stato Rubio) e della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Sul tavolo, la questione dei dazi in primo luogo, ma chiaramente anche la vicenda russo-ucraina, visto che siamo alla vigilia di un confronto diretto tra Putin e Trump.
Su come sia andato il vertice, ovviamente, il racconto cambia a seconda di chi ne scrive. L’analisi della copertura mediatica, in tal senso, è particolarmente illuminante. Il Corriere della Sera nota un aspetto interessante, ovvero il fatto che “Meloni non ha presentato il trilaterale di Palazzo Chigi come una risposta alle critiche dell'opposizione interna e alle perplessità degli altri leader europei per essersi sfilata dagli ultimi vertici tra Francia, Regno Unito, Germania e Polonia”, ma ha lasciato che a farlo fossero altri esponenti di primo piano della maggioranza. E ha invece insistito sulla solita linea, quella dell’Italia come ponte fra Stati Uniti ed Europa e “dell’unità dell’Occidente”, che fin qui è sembrata sempre piuttosto fumosa. Trovando una sponda interessante proprio in Vance, che ha spiegato di “aver accettato con gioia” il tentativo di Meloni di “costruire ponti tra Europa e USA”.
Che siano dichiarazioni di facciata o meno, lo capiremo nelle prossime settimane. Di certo, ricorda il quotidiano milanese:
“il problema più spinoso è il rapporto commerciale fra le due sponde dell’Oceano. Washington ha imposto dazi del 25% su acciaio, alluminio automobili e del 10% su tutto il resto. La Commissione ha preparato contromisure su un vasto assorti-mento di merci: dall'agroalimentare all'elettronica. «Сі siamo scambiate le rispettive tabelle su cui ora lavoreranno i nostri tecnici», ha rivelato von der Leyen. L'incontro di ieri è durato poco più di un'ora: chiaramente non era quella la sede per concludere un accordo. Nel colloquio, però, la numero uno della Com-missione ha presentato un approccio simile a quello usa-to dal Giappone per placare gli americani. L’UE si impegna a ridurre il surplus commerciale, acquistando dagli USA più gas liquefatto e qualche altro prodotto. Forse anche armi, ma bisognerà superare le resistenze della Francia. Probabilmente tutto ciò non basterà all’amministrazione Trump. Ma perlomeno ieri è iniziato un confronto nel merito”.
Ecco, in realtà il confronto è iniziato da settimane, senza grande successo. Repubblica, ad esempio, ricorda che i dazi sono congelati fino a luglio e riporta le parole di von der Leyen secondo cui ci sono team al lavoro “24 ore su 24” e quelle di Meloni che ricorda come “quella dei dazi è materia commerciale, di competenza dell’Europa”, mentre sull'Ucraina l'Italia è ancora ai margini. In tal senso, però, va segnalato un primo successo di Meloni, che ha diramato una nota per rivelare di essere stata coinvolta "in una conversazione telefonica con il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald J. Trump, insieme ai Leader di Regno Unito, Keir Starmer, Francia, Emmanuel Macron, e Germania, Friedrich Merz, per consultazioni prima dell’annunciata telefonata" tra il tycoon newyorchese e Vladimir Putin. Leggerlo come un atto dovuto sarebbe riduttivo, considerando la marginalità dell'Italia nelle ultime settimane. Qualcosa sta cambiando, dunque?
È presto per dirlo, anche se i giornali della destra, già adesso, oscillano tra il trionfalismo e la decisa soddisfazione. Il Giornale è tra i più moderati e parla di “Meloni che unisce Ue ed Usa”, mentre Vance è “entusiasta” e quella di Roma è stata “una giornata perfetta”. Libero è quasi in estasi e sentenzia: “L’Italia non è isolata, opposizione smentita. Il Pd ha il vizietto di stare con chi è contro la nazione”. Il Tempo esulta e attacca Macron (non chiedetemi perché).
Per capire come stanno le cose, a parere di chi scrive, serve un esercizio di pazienza. Separare i fatti della propaganda, ricordarsi che la diplomazia è fatta di sorrisi di facciata e zone d’ombra, non rifuggire la complessità, anzi abbracciarla. Le parole che scrive ad esempio Stefano Stefanini su La Stampa seguono questo schema. Nel chiedersi “cosa serve all’Italia per entrare in gioco”, l’autore del pezzo si sofferma sulla questione Ucraina e racconta di come “gli europei non vogliano essere cortocircuitati dal canale diretto Trump e Putin”. Ma ha il coraggio di dire come stanno le cose, con estrema chiarezza, anche rispetto al ruolo dell’Italia e alla valenza del vertice di Roma:
In questa diplomazia a ritmi accelerati e decisioni rapide non c'è spazio per l'Unione europea. La parola passa alle capitali. E quindi a quelle che contano e fanno la differenza. La formula proposta da Merz per il pre-colloquio con Trump non è quella dei Volenterosi. È molto più semplicemente quella -classica-dei tre principali Paesi dell'Europa. L'uscita dall'Ue non ha cambiato nulla nel fondamentale ruolo strategico del Regno Unito nello spazio euroatlantico.
Il formato a tre, senza Italia, è tradizionalmente una nostra spina nel fianco. Questa volta frutto di una nostra scelta. L'Italia potrebbe probabilmente aggiungersi ai tre se archiviasse l'inutile polemica sull'invio di truppe in Ucraina – non in agenda – e optasse per stringere le consultazioni a tutto campo con Berlino, Parigi e Londra, anziché rifuggirne. Avremmo molte altre carte in regola, e un'indubbia facilità di comunicativa della presidente del Consiglio, in tutta evidenza ieri nell'ospitare l'incontro fra Ursula von der Leyen e JD Vance. Non di sostanza per tempo e luogo, ma una rottura del ghiaccio washingtoniano verso la presidente della Commissione.
Ecco, per contare qualcosa occorre ricordare prima di tutto il nostro ruolo e il nostro posto nel mondo. Che è in Europa, prima di tutto. Senza lasciarsi tentare da sterili fughe in avanti, con la promessa di una pacca sulla spalla dall'amico americano.
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