Alaa Ferraj e i migranti incarcerati: il traffico di umani non si combatte con la caccia alle streghe

La grazia parziale ad Alaa Farraj è una notizia positiva per un ragazzo condannato a 30 anni per traffico di esseri umani e omicidio plurimo per quella che viene chiamata “La strage di ferragosto” avvenuta nel 2015. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha concesso uno sconto di pena di undici anni e quattro mesi, che sommati ai dieci anni che ha già scontato gli dà la possibilità di accedere alla semilibertà. Quella di Alaa Farraj è una storia però che apre uno squarcio sul fenomeno del traffico di esseri umani, sul favoreggiamento e su come la giustizia italiana abbia messo in piedi una caccia alle streghe che negli ultimi 10 anni non ha colpito chi diceva di voler sgominare, gli scafisti, ma chi quel traffico lo subiva. Anche perché dovremmo chiederci perché un’organizzazione criminale dovrebbe perdere i propri uomini ad ogni viaggio, facendoli incarcerare. Facciamo però un passo indietro.
La caccia alle streghe: 1 ogni 600
Le indagini contro gli scafisti iniziano appena le persone toccano terra e seguono una procedura che arriva da un manuale della missione europea di pattugliamento “EUNAVFOR Med”, che suggerisce ai militari di osservare le dinamiche di gruppo a seguito del soccorso, perché gli scafisti “cercheranno di nascondersi tra i migranti quando l’imbarcazione è intercettata”. Questa è una pratica che dovrebbe essere solo l’inizio di un’indagine e che invece spesso si trasforma in quella caccia alle streghe fatta di interrogatori appena toccato terra e spesso senza una mediazione linguistica e culturale in grado di far capire all’interrogato cosa stia avvenendo veramente. 1 su 600 è la media delle persone arrestate negli ultimi anni in Italia durante le operazioni di sbarco. Da anni Arci Porco Rosso redige un report annuale con tutti i casi di accusa e condanna per traffico di esseri umani e le cifre parlano di 106 arrestati nel 2024, dato inferiore in termini assoluti agli anni precedenti ma superiore in proporzione: 177 nel 2023, 261 nel 2021, quando però il rapporto era di un arrestato ogni 800 persone arrivate in Italia.
Come è accaduto nel caso di Alaa Farraj, i processi mettono insieme una serie di testimonianze a caldo, che poi vengono ritrattate ma che più che a ricostruire i fatti vanno a confermare una tesi, quella che qualcuno tra le persone a bordo è responsabile e va condannato. Nella fase processuale tra le testimonianze contro gli 8 ragazzi accusati per la Strage di ferragosto, c’è quella dell’ispettore che ha condotto l’indagine nei momenti successivi al soccorso dell'imbarcazione. L’ispettore racconta di aver visto “un movimento strano di alcuni migranti che si distinguevano dagli altri per il colore della pelle, che erano molto più chiari rispetto agli altri, gli altri erano molto scuri, neri”. Gli imputati sono più chiari perché provengono da Libia, Marocco, Tunisia e Siria, questo però non li rende colpevoli, piuttosto li colloca in una posizione diversa nella traversata.
Lungo le rotte migratorie infatti c’è una classificazione dei migranti in base alla provenienza, la lingua e il colore della pelle. I magrebini e chi proviene dal Medio Oriente, quindi chi è più chiaro e parla arabo, viene trattato meglio dalle milizie libiche o dai trafficanti tunisini. Tra i sub-sahariani invece sono i sudanesi che svolgono i lavori per i libici perché si trovano su di un gradino inferiore ma parlano arabo. Gli altri subsahariani in molti casi, e a chi scrive è capitato più volte durante le missioni di ricerca e soccorso con le ONG nel Mediterraneo, chi arriva dalla fascia centrale dell’Africa viene chiamato “les africains”, gli africani, questo perché dovremmo ricordarci che c’è sempre qualcuno più a Sud. Per ultimi, in fondo alla scala d’importanza, ci sono gli asiatici: Bangladesh, Pakistan e altri Paesi. Questa scala si ritrova anche nelle posizioni dei barconi che fino al 2017 abbiamo visto arrivare sulle nostre coste: più era chiara la pelle, più pagavi, e più eri in alto. Nel viaggio in cui Alaa Farraj era a bordo nel 2015 questo è accaduto e la separazione del gruppo notata dall’ispettore dovrebbe assumere un altro significato alla luce di questa dinamica. Questo però quando non si vuole trovare un colpevole a tutti i costi.
I disgraziati e scafisti improvvisati
“Gli imputati non sono gli organizzatori del viaggio, questi ultimi rimasti al sicuro sulle coste libiche bensì altri disgraziati che hanno accettato tale compito per fuggire anch’essi dalla condizione in cui versavano in patria. Dunque scafisti improvvisati se è vero che essi venivano allenati sulla spiaggia alla conduzione dei gommoni poco prima della partenza”. Questo è un passaggio di una sentenza della Corte d’Appello di Lecce per un processo simile a quello di Alaa Farraj e riguarda Diouf Alaji, un senegalese partito nel 2015 alla volta dell’Italia perché con il suo lavoro di piastrellista non riusciva a mantenere la mamma e tutta la sua famiglia. Diouf Alaji del mare ha sempre avuto paura, non ha competenze marittime e di quel viaggio racconta che “Eravamo in centotrenta nel barcone, talmente tanti e stretti che non potevamo distendere neanche le gambe”, difficile immaginarlo in questa situazione al comando dell’imbarcazione.
Lui e gli altri vengono soccorsi da un’imbarcazione militare, sbarcano al porto di Taranto e Diouf Alaji nel giro di poche ore si ritrova in carcere: viene accusato da un uomo che si trovava su un’altra imbarcazione di essere lo scafista. Alaji parla solo la lingua wolof, una delle tante parlate in Senegal, mentre l’interrogatorio gli viene fatto in lingua mandinga, araba, inglese e francese. Lui non capisce e quindi non risponde, l’avvocato d’ufficio che non chiede un traduttore che possa permettergli di difendersi e l’accusa di un uomo che viaggiava a qualche centinaio di metri da lui bastano per confermare l’arresto e il rinvio a giudizio. Nove anni e mezzo di carcere, un tentato suicidio dettato dalla disperazione e quella sentenza che conferma l’estraneità all’organizzazione criminale. Oggi Alaji è accolto da una delle case di Baobab Experience, associazione che si occupa dei migranti transitanti a Roma, e lavora come piastrellista. I trafficanti invece, come dice la sentenza sono rimasti al sicuro sulle coste libiche.
Su tutto il globo terracqueo
La frase della Presidente del Consiglio Meloni detta nella conferenza stampa a seguito della strage di Cutro è diventata famosa per l’espressione anacronistica e per l’aria seccata che lei e il Ministro dell’Interno Piantedosi hanno mostrato in quella breve comparsata. Come d’uso di questo governo, dopo il naufragio che ha portato alla morte di 94 persone, di cui 34 bambini, è stato fatto un decreto per inasprire le pene per gli scafisti. Dal 2015 sono passati 10 anni e la lotta al traffico di esseri umani non ha fatto mezzo passo in avanti, concentrandosi ancora una volta sui disgraziati e non su chi resta al sicuro sulle sponde libiche, le stesse dove Almasri e i suoi sodali controllavano quel traffico di esseri umani prima di cadere in disgrazia ed essere rimpiazzato da qualche altro criminale legato al potere di Tripoli. La grazia parziale a Alaa Farraj è quindi una buona notizia che evidenzia però come la caccia alle streghe nei porti italiani, dove basta avere la pelle più chiara o essere indicato da qualcuno in un momento di massima fragilità per finire in carcere, magari senza nemmeno capire le domande che ti vengono poste.
Fin quando questo fenomeno non sarà trattato come un fenomeno strutturale europeo ma come un’emergenza dei Paesi di confine nel Mediterraneo, la caccia alle streghe non si fermerà e il traffico di esseri umani sarà incentivato. I canali legali e sicuri per tutti sono la soluzione, come hanno dimostrato i corridoi umanitari della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, della chiesa valdese e Sant’Egidio.
Ma la propaganda xenofoba a quel punto non frutterebbe più voti per la destra.