A Gaza almeno 29 persone tra anziani e bambini sono morti di fame in soli due giorni

La fame ha un tempo diverso da quello della guerra. È un tempo che scorre silenzioso ma inarrestabile, senza tregue né corridoi umanitari. A Gaza, in due soli giorni, almeno 29 persone, tra cui bambini, anziani e malati, sono morte non sotto le bombe ma per mancanza di cibo. Non una metafora, ma una constatazione clinica: decessi legati alla malnutrizione, alla fame vera, che si aggiungono ai 56 morti registrati nei precedenti ottanta giorni di assedio. Mentre il mondo discute e i negoziati si incagliano, la carestia, dunque, avanza. Mercoledì notte, dopo settimane di chiusura quasi totale, novanta camion dell'ONU sono riusciti a entrare a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, alcuni dicono solo dieci. Sono rimasti fermi per ore sotto il sole, bloccati da problemi di coordinamento e dal timore di saccheggi; quando finalmente si sono mossi, per molti palestinesi era però già troppo tardi. Gli aiuti sono stati distribuiti di notte: qualche sacco di farina, un po' di latte in polvere, cibo per bambini, medicinali essenziali. Pochissimo per un milione e mezzo di persone intrappolate nella Striscia, molte delle quali, ancora, non hanno ricevuto nulla.
L'assedio della fame
Secondo il Programma Alimentare Mondiale, una manciata di panifici ha ripreso a funzionare, riuscendo a sfornare un pane che per settimane era diventato un bene di lusso, venduto anche a 5 dollari a pezzo. È un primo passo, assolutamente ancora insufficiente: "Dopo 80 giorni di blocco totale, le famiglie sono ancora a rischio carestia", ha dichiarato l'agenzia ONU, sottolineando che "il pane da solo non basta per la sopravvivenza". Lo conferma anche la Mezzaluna Rossa Palestinese: "I civili non hanno ancora ricevuto nulla". I camion entrati sono ancora in gran parte fermi al valico. Alcune scorte sono state consegnate a un ospedale da campo, ma nei quartieri più colpiti del nord, come Jabalia, Beit Lahiya, Sheikh Zayed, non arriva nulla. Qui la situazione è infatti disperata, e lo sarà ancora di più nei prossimi giorni; l'esercito israeliano ha infatti emesso nuovi ordini di evacuazione forzata e ha annunciato un'intensificazione delle operazioni militari nell’area.
Bombe sugli ospedali, la diplomazia si ritira
Ieri, giovedì 22 maggio, mentre gli operatori umanitari tentavano di distribuire le scorte, i bombardamenti sono ripresi intensi su tutta la Striscia, colpendo in particolare l'area orientale di Gaza City. Almeno 85 i morti nella sola giornata, secondo fonti sanitarie locali. Tra i bersagli, ancora una volta, le strutture sanitarie: l'ospedale Al-Awda è stato, infatti, centrato da un raid aereo. I video circolati sui social mostrano muri crollati, denso fumo nero, reparti sventrati; è uno dei due ospedali ancora attivi nel nord della Striscia. Nel frattempo, il processo diplomatico ha subito un nuovo arresto: Benjamin Netanyahu ha richiamato lo staff tecnico dai negoziati in corso a Doha, segnalando la volontà di proseguire l'operazione "Carri di Gedeone", che prevede non solo bombardamenti ma anche un'ulteriore invasione terrestre. Una decisione accolta con sgomento dai familiari degli ostaggi israeliani, che chiedono una soluzione negoziale: secondo un recente sondaggio dell'Israel Democracy Institute, il 70% degli israeliani sarebbe disposto a fermare la guerra in cambio del loro rilascio.
Unicef: "Una goccia nell'oceano"
Sui social, l'Unicef ha definito l'arrivo degli aiuti "una goccia nell'oceano": il tempo per salvare altri bambini sta finendo. L'Europa, ancora una volta, appare divisa: diciassette Paesi, tra cui Spagna, Irlanda, Norvegia, si sono espressi per rivedere gli accordi con Israele. Altri nove, tra cui Italia e Germania, si sono invece opposti. E mentre il dibattito politico europeo si incaglia sulle parole da usare, genocidio o no, le parole pronunciate dalla vicepresidente della Commissione Ue Teresa Ribera a Roma pesano come pietre: "È vergognoso. Se non è un genocidio, è qualcosa di molto simile". Secondo Ribera, intervistata da Repubblica, la strategia di Netanyahu non è solo devastante per i palestinesi, ma per tutta la regione, compreso il popolo israeliano. A suo dire, alimenta l'odio e, indirettamente, anche l'antisemitismo: "Molti israeliani vogliono la pace", ricorda la vicepresidente, "il problema non è Israele in sé, ma chi lo governa oggi".
L'Italia volta le spalle alla pace: bocciata la mozione per stop armi e sanzioni a Israele
E mentre in Europa si moltiplicano le crepe diplomatiche, in Italia la Camera dei deputati ha respinto, il 21 maggio scorso, una mozione unitaria delle opposizioni che chiedeva di fermare l'export di armi verso Israele e avviare sanzioni per le gravi violazioni del diritto internazionale a Gaza. Un'occasione politica importante, che il centrodestra ha scelto di affossare, sostenendo invece un testo più vago e privo di impegni concreti. La mozione era stata presentata da Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra, dopo settimane di confronto nel tentativo di portare in Aula un documento capace di spostare la linea dell'Italia. Il testo chiedeva il riconoscimento dello Stato di Palestina nei confini del 1967, la condanna del piano israeliano noto come "Carri di Gedeone", definito come un atto di "annientamento sistematico" della popolazione civile, e l'immediata sospensione dell'importazione di armamenti da e verso Israele. Ma la maggioranza ha fatto muro, approvando una mozione alternativa, e un solo punto presentato da Italia Viva, che si limita a "esprimere preoccupazione" per la situazione umanitaria, senza proporre alcun cambio di rotta. In un momento in cui le cancellerie europee si interrogano apertamente sul futuro delle relazioni con Tel Aviv, l'Italia sceglie dunque la linea della continuità e del silenzio operativo. E mentre a Gaza si muore di fame, il Parlamento italiano volta, di nuovo, lo sguardo.
Hussein al-Sheikh (Anp): "Se dipendesse da me, firmerei subito"
Dal lato palestinese, il numero due dell'Autorità Nazionale Palestinese, Hussein al-Sheikh, ha affermato di essere pronto a firmare "all'istante" un'intesa con Israele. E se la formula dei due Stati non è più percorribile, si dice disposto ad accettare un unico Stato, a patto che tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti e che Gerusalemme ne sia la capitale. È una dichiarazione che rovescia la narrazione consueta: un alto dirigente palestinese che chiede di condividere lo Stato con chi oggi bombarda. Ma, nella paralisi diplomatica attuale, anche queste parole restano sospese. Intanto, nel tempo lento e inesorabile della fame, altre vite si spengono. Perché in guerra, anche un camion di farina può arrivare troppo tardi. E anche il pane, quando arriva, non basta più.