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Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre Jessica Custodia de Lima Stappazzollo è stata uccisa dall’ex compagno, Douglas Reis Pedroso. L’uomo aveva il braccialetto elettronico e il divieto di avvicinamento alla donna. Non è servito a niente, se lo è tolto e l’ha ammazzata. L’allarme non è scattato, nessuno si è accorto di nulla, e le forze dell’ordine non hanno la minima idea di dove sia il dispositivo.
Jessica Custodia de Lima Stappazzollo. Questo è il nome dell’ennesima donna uccisa dall’ex che non accettava la fine della relazione. Mentre scrivo non è stato ancora trovato dalle forze dell’ordine il braccialetto elettronico che l’uomo avrebbe dovuto indossare. Come già accaduto in molti altri casi, l’uomo si è strappato il dispositivo senza che scattasse alcun allarme. Nessuna segnalazione, nessun intervento preventivo da parte delle forze dell’ordine. Una vicenda che ripropone, inevitabilmente, la stessa domanda di sempre: qual è l’efficacia reale di questi strumenti, se continuano a non garantire la sicurezza delle donne?
Jessica Custodia de Lima Stappazzollo aveva denunciato Pedroso, già sotto procedimento penale con l’accusa di maltrattamenti in famiglia e tentata violenza sessuale nei confronti della sorella della vittima. Era una persona ben nota alle forze dell’ordine, con un presente fatto di alcol e tossicodipendenze. Il giudice aveva disposto per lui il divieto di avvicinamento, ritenendo sufficiente la misura del braccialetto elettronico. Dopo aver ucciso Stappazzollo è stato lui a chiamare i carabinieri, spiegando cosa aveva fatto e comunicando l’intenzione di suicidarsi. Quando i militari sono arrivati sul posto, hanno trovato la donna ormai priva di vita. Del braccialetto elettronico di Pedroso, nessuna traccia.
Per questo nuovo articolo di Streghe ho intervistato Carla Quinto, avvocata penalista specializzata in violenza di genere e responsabile dell’Ufficio legale della cooperativa sociale antiviolenza Befree. Quinto mi ha spiegato che “l’introduzione del braccialetto elettronico ha mostrato diverse criticità: spesso non ci sono abbastanza dispositivi disponibili. Se il braccialetto è disponibile e l’indagato lo manomette o lo toglie, la misura cautelare viene aggravata e possono scattare il carcere o gli arresti domiciliari. Ma se il dispositivo non viene applicato per motivi indipendenti dall’indagato, ad esempio perché i braccialetti non sono disponibili, allora non c’è un aggravamento automatico. È il giudice che valuta caso per caso”.
“Un altro problema è che questi dispositivi spesso non funzionano bene. Noi avvocate dei centri antiviolenza lo segnaliamo da tempo: hanno bisogno di essere resettati, si guastano, a volte ‘trillano’ senza motivo, e per alcune donne diventano strumenti molto invasivi, più che protettivi. La manomissione, poi, è un problema reale. Tant’è che l’ultima riforma, il cosiddetto ‘decreto Roccella’ (legge 168 del 2023), ha preso atto di questa situazione: non solo ha esteso l’uso del braccialetto anche alle misure di prevenzione, ma ha previsto che, in caso di manomissione, la durata della misura possa essere estesa fino a quattro anni. Il fatto stesso che il legislatore abbia dovuto prevederlo dimostra che la manomissione è un fenomeno già molto diffuso”.
Le misure cautelari non bastano a tutelare le donne. “Il vero nodo è a monte – continua Quinto -. Si continua a irrigidire la normativa, ma tutte queste leggi mantengono la cosiddetta ‘clausola di invarianza economica’. Significa che non vengono stanziati nuovi fondi: nessun costo aggiuntivo per la finanza pubblica. Ma le norme antiviolenza avrebbero invece bisogno di molte più risorse dedicate. Il Codice Rosso, per esempio, funziona solo dove c’è personale sufficiente, e spesso non c’è: ad esempio, negli uffici delle procure specializzate se ci sono tre persone in segreteria non bastano, perché per gli adempimenti del Codice Rosso ne servirebbero dieci, e lo stesso per il sotto organico delle forze dell’ordine. E allora puoi anche prevedere l’uso diffuso del braccialetto elettronico, ma se i dispositivi non bastano o non funzionano, il sistema non regge. Il problema, insomma, è duplice. Da un lato, mancano i fondi e il personale. Dall’altro, lo Stato continua a investire solo in strumenti repressivi, e non in prevenzione. Le misure repressive non bastano: il diritto penale interviene ‘a danno fatto’. Per cambiare davvero la società servono azioni educative, educazione all’affettività, percorsi di prevenzione nelle scuole, formazione degli operatori”.
C’è poi un altro problema: non c’è sinergia tra il sistema penale, civile e minorile. Ogni ambito procede per conto proprio, senza uno scambio reale di informazioni, e questo spesso si traduce in decisioni contraddittorie che finiscono per esporre ancora di più le donne e i bambini alla violenza. “Può succedere, per esempio, che un uomo indagato per violenza, e magari già colpito da misura cautelare, continui a vedere i figli perché in sede civile non si tiene conto della violenza denunciata. È un cortocircuito grave, dovuto alla mancanza di formazione e coordinamento tra tribunali e servizi sociali. La riforma Cartabia, sul piano civile, qualcosa ha fatto: ha previsto l’ascolto del minore, la possibilità di tenere udienze separate nei casi di violenza, e ha stabilito che il giudice debba tener conto anche delle sole allegazioni di violenza (cioè una denuncia o un referto medico). Ma nella pratica è ancora tutto molto lento e disomogeneo”.
“Altro punto: la ritrattazione e la riconciliazione. Sono comportamenti connaturati alla dinamica della violenza, ma spesso i tribunali li interpretano come segni di inaffidabilità della donna. E questo è gravissimo, perché contribuisce al dato terribile che solo cinque casi su dieci di Codice Rosso arrivano a condanna. Non perché le donne mentano, ma perché i giudici, soprattutto se non formati adeguatamente, ancora oggi si lasciano influenzare da stereotipi e pregiudizi di genere”.
Come spesso accade nelle relazioni segnate dalla violenza, è capitato che Jessica Custodia de Lima Stappazzollo incontrasse nuovamente Pedroso. Un gesto che però non dovrebbe destare stupore: in una relazione abusante la dipendenza psicologica può essere così profonda da spingere la donna a tornare dal suo maltrattante. Sono dinamiche complesse, dolorose, che non si possono ridurre a un semplice “ma perché l’ha rivisto?”. La realtà è molto più intricata di così.
“Le vittime, purtroppo, soprattutto se non sono adeguatamente seguite, rischiano molto. È vero che oggi, con il Codice Rosso, le forze dell’ordine devono informare la persona offesa del reato e invitarla a rivolgersi a un centro antiviolenza. Ma non tutte le donne che ricevono l’informativa poi si rivolgono davvero a un centro. Bisogna distinguere tra chi è seguita da un centro antiviolenza — e quindi inizia un percorso di elaborazione e riceve indicazioni che la rendono più forte, più consapevole e meno incline alla riconciliazione o alla ritrattazione — e chi invece resta sola. Le vittime di violenza hanno spesso due reazioni molto comuni, che fanno parte proprio della dinamica della violenza stessa: da un lato, i sensi di colpa; dall’altro, il sentirsi corresponsabili e sopratutto nelle prime fasi di fuoriuscita dalla violenza, se non vengono adeguatamente sostenute, anche da un punto di vista psicosociale, è molto più probabile che ricadano nella relazione abusante. Per questo non mi stupirebbe se la ragazza avesse deciso di rivederlo, magari anche più volte: purtroppo riconciliazioni, ripensamenti e ritrattazione fanno parte della dinamica violenta”.
La questione è estremamente complessa. Banalizzarla, come spesso avviene nel dibattito pubblico e – cosa ancora più grave – a livello istituzionale, non porta a nulla. E di certo non previene il ripetersi dei femminicidi, non previene la violenza di genere. Serve solo a mantenere immutato un sistema che continua a fallire.
“In definitiva, il braccialetto elettronico è solo uno dei tantissimi problemi sui quali intervenire – conclude Quinto – Il problema è molto più ampio e riguarda l’intero sistema: dalle forze dell’ordine ai giudici, avvocati, servizi sociali e mancanza di centri antiviolenza. La protezione delle vittime non può dipendere solo dalle azioni penali, da una misura cautelare, ma dalla presenza sul territorio di servizi specializzati e finanziati e di una rete antiviolenza di sostegno pronta. Nessuna può farcela da sola: serve un sistema integrato, con formazione, fondi, e un approccio culturale di genere che metta davvero al centro la sicurezza e la dignità delle donne. È un fenomeno complesso, che richiede un lavoro di squadra. Se in quel territorio fosse rimasto aperto il centro antiviolenza, probabilmente la donna avrebbe avuto un supporto diverso, e magari avrebbe avuto degli strumenti per resistere alle pressioni di rivedere l’uomo. Io credo molto nelle misure cautelari intermedie, che non siano il carcere, ma è necessario valutarle con attenzione e rilevare correttamente il rischio di escalation delle condotte violente. Perché quando avviene un femminicidio, la responsabilità non è solo dell’autore e del reato, del pubblico ministero, del giudice che ha scelto la misura: è dell’intera comunità, dello Stato, di tutti noi”.
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Ciao!
Natascia Grbic
Proprio in queste ore abbiamo appreso con profondo dolore della scomparsa di Oria Gargano, presidente di Befree. Da sempre in prima linea nella difesa dei diritti delle donne, ha dedicato la sua vita alla lotta contro la violenza di genere, lasciando un segno profondo e indelebile nella vita di chi ha incontrato e sostenuto. La sua determinazione, la sua forza e la sua umanità resteranno un esempio per tuttə. La sua perdita rappresenta un vuoto incolmabile per il movimento femminista. Alle sue compagne e a chi le è stato vicino va l’abbraccio e il cordoglio della redazione di Fanpage.it.