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Pierdonato Zito, dal 41 bis a primo laureato in carcere: “Con studio e volontà sono uscito dall’abisso”

Pierdonato Zito, oggi 63enne, ha trascorso in carcere quasi metà della sua vita. Il 14 ottobre si è laureato in Scienze Sociali con 110 e lode grazie al Polo universitario penitenziario di Secondigliano dell’Università Federico II di Napoli.
Intervista a Pierdonato Zito
63 anni, primo laureato in Scienze Sociali con 110 e lode del Polo penitenziario della Federico II
A cura di Pierluigi Frattasi
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“Ho vissuto in carcere quasi metà della mia vita e sono stato 8 anni in isolamento al 41 bis. Quando stai tanto tempo rinchiuso, perdi il tuo ruolo di genitore, marito, padre, amico. Diventi un oggetto umano, diventi un numero. Io ho vissuto per anni con due numeri: il numero di matricola e quello del fine pena 31/12/9999. Nel computer non c’è fine pena mai. Lo studio mi ha aiutato come persona ad uscire dall’abisso, ma da solo non basta. La prima cosa è fare un atto di volontà. Oggi sono parzialmente fuori dal carcere. Ho tagliato i ponti col mio passato”.

Non ha dubbi Pierdonato Zito, oggi 63enne e con più di 30 anni trascorsi all’interno di istituti penitenziari, dei quali 8 in isolamento. Zito è il primo laureato del Polo universitario penitenziario di Secondigliano dell’Università Federico II di Napoli. Lunedì 14 ottobre 2022, ha discusso la tesi e conseguito la Laurea in Scienze Sociali con 110 e lode e il 20 ottobre c'è stata la proclamazione. Oggi Pierdonato vive a Succivo, in provincia di Caserta, impiegato come volontario nel settore politiche sociali del Comune, in esecuzione penale esterna in regime di semilibertà.

“Se sono soddisfatto di tanto studio?” Sì – dice a Fanpage.it – Poter rivedere il sorriso sui volti dei miei figli dopo 30 anni non ha prezzo. Vorrei che la mia storia potesse aiutare anche altri”.

Perché ha deciso di studiare e prendere la laurea a 63 anni?

Io ho vissuto molto tempo in carcere, quasi un quarto di secolo. Dopo tanto tempo chiuso, ho iniziato a chiedermi le ragioni del mio agire. Ho fatto uno scavo interiore, un po’ l’archeologo della mia anima. La sociologia mi ha dato le risposte e gli strumenti mentre ero in carcere per analizzare la società esterna e le mie azioni. Sono andato a studiare il mio agire, per capire me stesso. Ma ci sono anche altre motivazioni.

Quali?

C’è una responsabilità morale e etica. Io ho trascorso circa 30 anni in carcere. Ho una conoscenza personale della prigione. Attraverso lo studio ho capito che non si deve abbandonare una persona in carcere, così come prevede il dettame Costituzionale, perché quasi certamente si rimette sul territorio una persona recidiva. Bisogna aiutare i detenuti all’interno ad intraprendere un percorso di crescita. Questo è anche il senso della mia tesi di laurea: il carcere non come luogo di abbrutimento, ma di formazione. Mi sono fatto delle domande: lo studio può influire sui processi individuali? Tra coloro che in carcere decidono di frequentare corsi e tutto quello che le istituzioni offrono, rispetto a coloro che non lo fanno, in quanti rientrano?

Quali sono le conclusioni?

Ho usato l’auto-etnografia e il metodo comparativo tra 200 istituti di pena circa in tutt’Italia, dove la recidiva è intorno al 70%. Ma nel caso del carcere di Bollate nel milanese, invece, dove ci sono corsi per i detenuti e la pena è responsabilizzante, non infantilizzante, c’è un calo drastico della recidiva del 16%. Il motivo? Li si applicano alcune norme costituzionali. Conviene alla società non abbandonare i detenuti, perché la ricaduta è individuale, ma anche familiare e sociale, perché la società non viene ferita.

Da ragazzo quale era il suo rapporto con lo studio?

Io ho frequentato l’Ipsia, ho un diploma triennale di qualifica professionale. Lo studio mi è sempre piaciuto. Ma ho smesso, ho fatto vari lavori. I miei genitori volevano che studiassi e che mi laureassi. Per questo ho esaudito anche un po’ il loro desiderio.

Otto anni in isolamento, si rischia di impazzire?

Non è facile gestire una condizione del genere. Quando ti alzi la mattina e fino a sera devi inventarti la vita mentre sta passando. Io faccio parte di quella piccola percentuale che è riuscita a uscire dal labirinto. Lo studio è uno dei motivi, ma da solo non basta. Altrimenti non ci sarebbero i reati dei colletti bianchi, che sono quasi tutti laureati. Ci vuole anche altro.

Cosa?

La prima cosa è la forza di volontà. Io ho deciso di chiudere una parentesi della mia vita. Di alzarmi dove sono caduto. Ci deve essere una forte motivazione. Il secondo è l’auto-scrittura. Io ho scritto due libri, uno si chiama I colori nel buio, che sono la speranza. Il talento è restare nell’abisso e non perdersi lì dentro. L’ho scritto mentre vivevo quella condizione. Scrivendo, ho dato ordine alla mia vita.

Che altro?

Il terzo punto sono le relazioni umane. La famiglia che ti sta vicino, i volontari, ma anche i sacerdoti in carcere. All’interno dell’istituto di Secondigliano ho incontrato il professor Antonio Belardo, che insegna con una succursale di un istituto Isis Caruso. Mi dava lezioni anche di biologia e chimica. Ed è il volontario che mi segue tutt'ora. Io ero nella sezione T1 riservata agli ex 41 bis e all’isolamento. Grazie alla dottoressa Giulia Russo, direttrice del carcere, sono stato autorizzato a usare una cella per lo studio. Quando ho frequentato i corsi di Scienze Umane la mia aula è stata una cella. Abbiamo trasformato un luogo detentivo in un luogo formativo di crescita e apprendimento di conoscenza.

Lei ha tre figli, come vi siete ritrovati dopo 30 anni di carcere?

La famiglia è fondamentale. Ho rivisto il sorriso sui miei figli. Oggi lavorano tutti.

Consiglierebbe il suo percorso di studio al Pup della Federico II anche ad altri? 

Dopo di me, anche nella sezione T1, ci sono altri detenuti che si sono iscritti a sociologia. Per molte persone si è accesa una speranza. Si può uscire dal labirinto. E poi c’è la speranza che tanti ragazzi possano seguire il mio esempio. Quando mi hanno chiamato in qualche liceo per raccontare la mia esperienza, autorizzato dal magistrato, ho parlato con i ragazzi delle quinte. Io porto una testimonianza di chi è uscito da un percorso. Una prova che si può e si deve cambiare.

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