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Dalle accuse a Geolier ai giovani camorristi-influencer: come è cambiata la comunicazione dei clan

Intervista al prof Marcello Ravveduto, studioso di comunicazione mafiosa: come le nuove generazioni di criminali sfruttano i social per pubblicizzare il loro mondo.
Intervista a Marcello Ravveduto
docente universitario, studioso di comunicazione mafiosa
A cura di Nico Falco
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Marcello Ravveduto
Marcello Ravveduto

Dai nuovi modi di comunicare delle mafie, che sfruttano le potenzialità dei social network, all'importanza di una certa simbologia ricorrente, fino al "fenomeno Geolier" e alle accuse di inneggiare alla malavita piovute sul cantante napoletano: parla a tutto tondo, Marcello Ravveduto, docente universitario e studioso di comunicazione mafiosa, che ai microfoni di Fanpage.it racconta l'evoluzione della comunicazione mafiosa e la fascinazione esercitata da determinati ambienti, in particolar modo quando si mischiano al lusso e i confini tra crimine e successo diventano sempre più labili.

Professor Ravveduto, Geolier è stato accusato di essersi fatto portavoce della criminalità, di esercitare una influenza negativa sui giovani con le sue canzoni. Lei come interpreta il suo stile comunicativo?

Il fenomeno Geolier è dentro una narrazione che avviene nei quartieri di Napoli. È espressione del fatto che i giovani vivono la vita di strada in maniera trasversale: se si è andati a scuola con un camorrista o con un ragazzo che poi diventerà spacciatore, non significa che si seguirà la stessa strada. Questo ci fa comprendere quanto noi e nel nostro Paese non siamo in grado di separare moralmente questa dimensione. È chiaro che uno che vive quel mondo, e che lo vuole raccontare in maniera autentica, lo fa usando gli stessi simboli e segnali che trova in quel mondo.

Geolier è stato spesso tirato in ballo per il video "Narcos", in cui imbracciava un kalashnikov: in realtà lì c'era la dinamica del racconto, che era molto influenzato dalle immagini ormai globalizzate dei narcos colombiani e messicani. Quel racconto, che cerca una autenticità, cerca di replicare quel mondo. Se io cerco di raccontare quel mondo, di mostrare come è nella realtà, non significa che io ne faccia parte. Per le giovani generazioni la trap è una narrazione che ci apre a voci che prima non ascoltavamo.

Ci sono, però, giovani camorristi che realmente usano i social e con un proprio, caratteristico linguaggio. Come si è evoluto questo tipo di comunicazione?

La comunicazione delle mafie è cambiata negli ultimi 20 anni, e il cambiamento è determinato da una trasformazione avvenuta nel sistema delle comunicazioni in maniera generale. I social network sono fondamentali per costruire una nuova grammatica per raccontarsi, l'autorappresentazione: oggi ci sono alcuni social network che hanno una bassa soglia di ingresso e di identificazione, che gli consentono di far vedere le proprie vite, ovvero il vero e proprio reality show delle mafie.

I giovani camorristi possono arrivare a comunicare il loro mondo come se fossero degli influencer. Promuovono la loro stessa marca, cioè la mafia. L'idea che l'appartenenza criminale sia una sorta di "love mark", un marchio che stimola le emozioni, la partecipazione. Il lusso sta diventando un modo, nel racconto dei social network, per normalizzare l'autorappresentazione dei mafiosi. Noi in Italia non abbiamo una regia di un unico clan, come accade in Messico, ma tanti piccoli boss e affiliati che costruiscono una rappresentazione con vestiti di lusso, automobili, gioielli, che servono a dire che sono simili ai figli dei ricchi delle grandi imprese multinazionali. Dire questo significa che loro hanno legittimità a poter raccontare la propria vita, come fanno tutti i ricchi del mondo.

Sui social circolano anche messaggi più "classici", legati direttamente ed in modo inequivocabile al mondo criminale.

C'è un altro tipo di narrazione che è, invece, legata alla evoluzione del gergo criminale. La costruzione di una comunità fatta sulla riconoscibilità, sulla visibilità, che spesso è legata a simboli, come il 17 di Emanuele Sibillo, identificativo della famiglia.

Oggi sui social sono importanti anche le emoji: il leone rappresenta il coraggio, la catena invece il carcere o la fedeltà assoluta, la siringa che indica la fratellanza che si genera in queste giovani generazioni criminali. C'è una grande trasformazione digitale di questo gergo che ha, però, duecento anni.

In questa narrazione del lusso rientra anche la Sonrisa, scelta negli anni da molti criminali proprio per le ambientazioni che offre.

Ovviamente ci sono tantissime persone oneste che hanno festeggiato alla Sonrisa, con l'intenzione era di vivere una favola. In un sistema di comunicazione mafioso, invece, in cui i camorristi vogliono mostrarsi uomini di potere attraverso il lusso, la Sonrisa è spesso diventato l'emblema di una reggia, dove mostrarsi come dei nobili, che hanno non solo potere economico ma anche influenza sociale. In questa ottica il Grand Hotel diventa il teatro ideale dove coniugare questa idea del lusso con la metafora dell'essere una aristocrazia criminale.

Vincenzo Di Lauro ha usato la Sonrisa come luogo dove incontrare i malavitosi bulgari con cui voleva imbastire un traffico di sigarette illegale come si sarebbe fatto un tempo nel Regno delle Due Sicilie: un nobile che accoglie una delegazione estera e lo fa in un luogo simbolico della ricchezza, per mostrare il potere della sua organizzazione criminale.

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