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Camorra di Ponticelli, bombe e case requisite per non far parlare i pentiti

I clan di Napoli Est avevano minacciato i pentiti per non farli parlare: nell’ordinanza ricostruite le intimidazioni e gli attentati dinamitardi.
A cura di Nico Falco
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Immagine di repertorio
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Diversi pentiti della camorra di Napoli Est erano stati minacciati con violenze, furti, danneggiamenti e anche attentati dinamitardi per convincerli a non parlare e a ritrattare quanto già rivelano agli inquirenti. Il particolare emerge dall'ordinanza che ha portato al blitz di questa notte contro i clan della periferia orientale di Napoli: una sessantina di arresti, eseguiti da Carabinieri e Polizia di Stato per l'operazione anticamorra più imponente del post-pandemia.

Tra i destinatari delle misure ci sono gli appartenenti alle famiglie malavitose Minichini, De Luca Bossa, Schisa, Aprea, Casella, risultate attive a Napoli Est (Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio), in alcune zone del centro storico (Porta Nolana, Piazza Mercato), nel comune di Massa di Somma (Napoli) e con collegamenti a Marigliano.

La bomba contro il pentito nipote del boss

Il 10 luglio 2019 Gabriella Onesto (ritenuta ai vertici del clan) viene intercettata durante il colloquio in carcere col boss detenuto Michele Minichini detto "Tiger" o "Tigre". L'incontro verte sul contenuto di un vertice tra clan avvenuto qualche giorno prima. All'inizio, però, Minichini comunica alla donna che Umberto D'Amico, dei "Gennarella" di San Giovanni a Teduccio (affiliati ai Mazzarella e rivali dei Minichini), si è pentito ed è stato trasferito nel carcere di Secondigliano.

La donna ribatte che nel corso della notte una bomba è stata fatta esplodere nei pressi dell'abitazione di D'Amico, notizia che, aggiungono gli inquirenti nell'ordinanza, "suscitava la soddisfazione di Minichini Michele, che era piacevolmente colpito nell'apprendere la notizia".

Il riferimento è a un ordigno effettivamente esploso a San Giovanni a Teduccio nella notte tra il 9 e il 10 luglio 2019 nelle vicinanze dell'edificio dove abitano affiliati alla famiglia camorristica dei D'Amico.

Le intimidazioni alla moglie del collaboratore di giustizia.

Uno dei casi riguarda Tommaso Schisa e risale al periodo tra settembre e novembre 2019. Secondo la ricostruzione degli inquirenti diverse donne del clan avevano prima costretto la moglie ad abbandonare la sua abitazione, ritenendola di proprietà del clan Schisa nonostante fosse stata legittimamente assegnata alla nonna della vittima, e successivamente avevano obbligato la donna ad andare a colloquio col marito detenuto per convincerlo a ritrattare.

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