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Opinioni

Mps, Carige e Bpm in crisi a Piazza Affari

Gli analisti di Societe Generale sono delusi dalle ultime trimestrali e fanno due conti: alle banche italiane servono almeno altri 11 miliardi di euro di nuovi capitali. Ma anzichè preparare le operazioni in molti casi scoppiano scontri tra azionisti o tra soci di controllo (spesso Fondazioni) e management…
A cura di Luca Spoldi
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Mentre continuano a far discutere i numeri “impossibili” del primo “assaggio” di privatizzazioni con cui il governo Letta vorrebbe convincere mercati e partner europei che stavolta in Italia si fa sul serio nella lotta all’indebitamento pubblico, cosa quanto meno improba visto che il debito è pari a oltre 2.068 miliardi, mentre gli incassi presunti, molto presunti, di questa tornata di privatizzazioni non dovrebbero superare i 10-12 miliardi di cui solo la metà andrebbe a ridurre il debito medesimo, che nel frattempo continua a crescere di 55-60 miliardi di euro l’anno visto che il costo medio del debito è stimato tra il 4% e il 4,5% annuo a seconda delle fonti, le banche continuano ad essere sotto i riflettori dei mercati, perché anche in vista dell’Asset quality review che la Bce sta avviando in queste settimane e che proseguirà fino all’estate del prossimo anno in molti temono che le banche italiane appariranno più deboli di quanto non vogliano far sembrare. In un report odierno gli uomini di Societe Generale parlano, ad esempio, della necessità di ulteriori accantonamenti ai fondi rischio su crediti per complessivi 44 miliardi di euro prima che il grado di copertura dei crediti problematici si allinei alla media europea.

Secondo gli esperti questi soldi non sono al momento tutti nelle casse degli istituti tricolori, che anzi potrebbero evidenziare la necessità di mezzi freschi fino a 19 miliardi. E se è vero che gli esperti francesi tranquillizzano gli investitori dicendosi fiduciosi che le banche italiane riescano a superare questa nuova sfida perché molti istituti sono riuscite ad accumulare negli ultimi anni una buona scorta di capitale in eccesso (nel complesso stimata pari a 8 miliardi, dunque tale da ridurre la necessità di aumenti di capitale attorno agli 11 miliardi di euro netti), è anche vero che per almeno tre soggetti le difficoltà sembrano ogni giorno più evidenti anche perché si sommano a problemi di governance o rapporti sempre più tesi tra il management degli istituti e i suoi azionisti di riferimento (che restano in molti casi le rispettive Fondazioni bancarie). I tre nomi sono Monte dei Paschi di Siena, Banca Carige e Banca popolare di Milano, vediamo di cosa soffre ciascuno dei tre istituti.

Monte dei Paschi di Siena ha chiuso la giornata di lunedì con un calo del 7,5% delle quotazioni tornate sotto i 20 centesimi per azione a 0,1956 euro (equivalente a una capitalizzazione di poco inferiore ai 2,5 miliardi di euro), per poi aprire in forte calo stamane (il titolo oscilla a 17,58 centesimi, -9,5%, dopo essere anche stato sospeso per eccesso di ribasso). A tenere sulle spine gli investitori è il tema dell’aumento di capitale, che l’amministratore delegato del gruppo, Fabrizio Viola, la scorsa settimana ha giudicato sempre più “problematico” via via che si allungano i tempi (le tre finestre temporali indicate da Viola sono a inizio anno, a giugno o fine anno), mentre dai vertici della Fondazione Montepaschi, a sua volta alle prese con la necessità di ridurre l’indebitamento, sono giunti inviti neppure troppo “tra le righe” a rimandare il più possibile l’operazione (un Cda dovrebbe dirimere domani la vicenda). Il perché lo si capisce bene: a Siena serviranno almeno 2,5-3 miliardi di euro di capitali per rimborsare i “Monti bond” e ridurre gli oneri finanziari (che sono saliti a 77 milioni nel solo terzo trimestre). Ma dato che allo stato attuale gli analisti si aspettano un’operazione a forte sconto, con l’emissione di nuovi titoli a 5 centesimi l’uno, la Fondazione, ormai intenzionata a vendere un’altra tranche dei propri titoli per ridurre i suoi 350 milioni di debito, rischia di vedersi “bruciare” sul tempo e incassare molto meno del previsto (oltre a veder dimezzato il suo 37,56%). Se ne dovrebbe sapere di più quest’oggi al termine di un Cda convocato per deliberare in merito, nell'attesa il titolo sta rapidamente azzerando i guadagni segnati in borsa nell’ultimo anno (al momento ridotti attorno al 5%).

Banca Carige ha invece perso “solo” il 2% scivolando a 51,9 centesimi di euro per azione: anche in questo caso è in ballo un aumento di capitale di importo (e tempi) imprecisato, ma che potrebbe arrivare a pesare tra i 500 e gli 800 milioni a fronte di una capitalizzazione di 1,155 milioni di euro. In questo caso la Fondazione Cassa di Risparmio di Genova e Imperia è azionista di riferimento col 49,429% e lo scontro è già arrivato a livello politico, con la giunta regionale guidata da Claudio Burlando (Pd) in pressing per un Cda rinnovato “di alto profilo” mentre la minoranza (Pdl) vuole che la politica “resti fuori” per lungo tempo “vicina” alla famiglia Scaloja (Alessandro Scaloja, fratello dell’ex ministro Claudio, è stato vicepresidente dell’istituto fino all’assemblea del 30 settembre scorso). Nel frattempo lo scontro è divampato anche in seno alla Fondazione, che deve ancora eleggere il successore dell’ex presidente Flavio Repetto, sfiduciato da 17 consiglieri alcune settimane fa dopo aver “silurato” l’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi.

Se questo non bastasse la Procura di Genova starebbe indagando, secondo notizie di stampa,  sull’ipotesi, emersa di recente dall’inchiesta sulle vicende del gruppo Ligresti, che l’allora presidente dell’Isvap, Giancarlo Giannini (già apparso particolarmente sensibile alle difficoltà di Fondiaria-Sai) possa avere, su pressione dello stesso ministro Scaloja, caldeggiato una certa “comprensione” nell’ambito delle periodiche verifiche alle assicurazioni del gruppo Carige (Carige Assicurazioni e Carige Vita Nuova), nel frattempo in vendita (paiono interessare al gruppo belga Ageas, già in trattativa con Unipol per rilevare parte degli asset di Milano Assicurazioni che dovranno esser ceduti come da accordi con l’Antitrust) non senza che la stessa Carige abbia avviato un’azione di responsabilità contro gli ex amministratori delegati delle stesse, Ferdinando Menconi e Diego Fumagalli.

Bpm, infine, ha terminato la seduta in calo del 2,2% a 0,4415 euro a titolo (equivalente a poco più di 1,45 miliardi di capitalizzazione); anche in questo caso c’è in ballo un aumento di capitale da (da 500 milioni) destinato al rimborso di “Tremonti bond” che costano sempre più cari man mano che si aspetta. L’operazione avrebbe dovuto essere varata già dopo l’estate scorsa, ma non se ne farà niente almeno fino alla prossima primavera: i soci sono infatti troppo impegnati a litigare tra loro, col banchiere d’affari Raffaele Mincione, secondo azionista della banca attraverso il fondo Athena Capital con una quota poco superiore al 7%, che ha ufficialmente rinunciato a presentare una propria lista capeggiata dall’ex premier Lamberto Dini, lasciando di fatto via libera a Piero Giarda, appoggiato dai soci-dipendenti e dai soci-pensionati che controllano l’assemblea, visto che in Bpm si vota (come in tutte le banche popolari) in  base alla regola del voto capitario (ogni socio vale un voto indipendentemente dalla quantità di azioni possedute), che secondo la personalissima opinione di chi scrive è un obbrobrio utile solo a garantire rendite di posizione a sindacati e forze politiche locali, ma tant’è.

Quanto al primo socio, Andrea Bonomi (8,6% del capitale della banca tramite il fondo Investindustrial), dopo aver per più di un anno provato senza successo a ottenere una modifica della governance pare intenzionato a giocare di rimessa, certo di poter ottenere i due posti in Consiglio di sorveglianza riservati ai fondi e conservando così intatto il proprio diritto di veto. Questo lo stato di tre istituti tra i primi dieci d’Italia: fateci caso, il problema, in modo del tutto analogo da quello che si presenta nel caso della “privatizzazione” di Eni, è l’impossibilità di riuscire a trovare nuovi soci disposti a pagare valutazioni elevate per le quote di capitale che finiranno sul mercato (vuoi a seguito di aumento vuoi di collocamento di partecipazioni) e contemporaneamente mantenere immutato il controllo sulla società o banca. Non dovrebbe essere una sorpresa, visto che persino il proverbio dice che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca (specialmente in tempo di crisi, aggiungo io). Ma la “classe dirigente” politica, sindacale e bancaria italiana non lo capisce o non lo vuol capire e continua a imprecare contro questo destino “cinico e baro” chiamato realtà (cercando semmai di scaricare il costo delle proprie inefficienze sui lavoratori, ma questa è un’altra storia).

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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