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Un assassino capace di piangere a comando ha reso quella di Giulia Tramontano una famiglia “casa e cimitero”

Nella quarta udienza del processo, Alessandro Impagnatiello si è rivelato un assassino capace di piangere a comando e offrire le brioche ai colleghi il giorno dopo aver ucciso la compagna, incinta di sette mesi. Quell’assassino ha reso quella di Giulia Tramontano una famiglia “casa e cimitero”.
A cura di Piero Colaprico
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C'è chi, "a comando", sa piangere, indignarsi, ridere, inalberarsi. Se lo fanno gli attori, beh, è il loro mestiere. Ma a volte anche gli assassini hanno queste capacità. Ce lo racconta con precisione, nella quarta udienza per l'omicidio di Giulia Tramontano e del piccolo Thiago, una vicina di casa dell’imputato Alessandro Impagnatiello.

Il barman dalla doppia vita ha già ucciso con trentasette coltellate la sua compagna e sono mesi che l'avvelenava, tentando di farla abortire. Ha lanciato l'allarme fasullo sulla sua scomparsa, lasciando intendere che fosse fuggita. E ne ha combinate anche altre, sempre terribili. Ma quando incontra la vicina del piano di sopra, Tiziana Barbieri, che cosa fa Impagnatiello? "L’ho visto sulle scale, ho detto che mi dispiaceva, gli ho chiesto ‘Da quanto tempo non vedi Giulia?' e lui s'è messo a piangere". La voce della signora si vena di stupore, e di indignazione: "L’ho consolato, mi ha poggiato la testa sulle spalle e quando mi sono allontanata piangeva ancora…".

Le lacrime del barman assassino cadevano, ma nelle ore precedenti aveva già provato invano a bruciare il corpo di Giulia, incinta di sette mesi, nella vasca da bagno. Lo aveva nascosto come e dove ha potuto, prima di abbandonarlo in una discarica, lasciando però nel condominio varie tracce di cenere. Quella stessa notte dell'omicidio, come racconta davanti ai giudici della Corte d'Assise un compagno di lavoro di Impagnatiello, l'assassino lascia il cadavere a casa ed esce, attraversa la città, vuole raggiungere l'altra ragazza, la sua collega, la "sua" storia parallela: quella giovane A. che ha fatto cascare il suo castello di orrori e bugie e ha "osato" chiamare Giulia. Per avvisarla e metterla in guardia: "Io e un altro collega – spiega un Alessandro Storti, barbuto e ancora stupefatto per quello che ha vissuto – abbiamo accompagnato A. a casa, raccomandandole di non aprire a Impagnatiello. Mentre stiamo per arrivare, eccolo, lo vediamo sui controviali di corso Sempione, è Impagnatiello. Lo sguardo fisso, senza ombrello, sotto un temporale pazzesco. Si dirigeva alla fermata Atm, dove sarebbe scesa A. Camminava impassibile…".

Sembra di vederlo, freddo e determinato. Avanza sotto la pioggia che gli lava da dosso l'odore di bruciato: chissà che cosa aveva in mente, chissà se mai ne parlerà, chissà se anche nella gabbia dov'è rinchiuso durante le udienze smetterà di restare vistosamente a capo chino, di ondeggiare sulla schiena, di dondolare come si vedeva fare nei film ambientati dentro i manicomi. Ma è sempre lui, lo stesso trentenne magro e scattante, il tipo "smart" che, il mattino dopo, come se non avesse ucciso, avvelenato, bruciato, imbrogliato, manipolato, ingannato, raggiunge il lavoro nella zona di via Montenapoleone. Offre ai colleghi – "E non lo faceva mai" – le brioche della colazione. E si mette a parlare di nuovi cocktail creativi. E a sera, tornando nella casa senza Giulia, chiama i suoi genitori: "Non è qui…", geme, con la voce alterata e, come sempre, pronta al quel terrificante pianto "a comando".

Questa quarta udienza non è stata emotivamente pesante come la terza, quando la mamma della vittima e la manna dell’assassino hanno testimoniato, una dopo l’altra, forzandosi di restare lucide davanti a una Corte d'Assise che sinora è apparsa inappuntabile, corretta e ricca di coscienza. Come scordare i loro pianti? Come dimenticare l'urlo, il singhiozzo, il cupo mugghio che, finita la testimonianza, e dietro la porta chiusa della saletta dei testimoni, s'è levato dalla madre dell’assassino?

Nella quarta udienza Chiara, la sorella minore di Giulia, non ha quasi mai pianto. È la sorella che s'è già fatta strada nel mondo, che ha lavorato in Finlandia e stava andando in Israele, seguendo i progetti del Cnr, il consiglio nazionale delle ricerche. Ha voluto essere il più possibile asettica. Non esiste per lei "Impagnatiello" o "Alessandro", ma solamente l’"imputato". Ripercorre il rapporto d'amore tra sorelle, il loro essere "confidenti", il forte e passionale legame da "famiglia del Sud", finché si arriva al primo particolare rivelatore, quello del test di gravidanza di Giulia. È positivo. Giulia piange con la sorella lontana: "Lacrime di gioia o di tristezza? O di paura?", questo è l'interrogativo di Chiara.

Spiega alla corte l'altalena emotiva della sorella, con Impagnatiello che non vuole il figlio, che poi lo vuole; prima ipotesi di aborto, seconda ipotesi di aborto, ma per la legge è troppo tardi; e poi quei lampi che illuminavano il rapporto difficile della coppia. "Non ti racconto nei dettagli, perché è assurdo per me, figurati per te", diceva Giulia a Chiara. Ma Chiara intuiva: le troppe "assenze" di Impagnatiello nei momenti cruciali, come l’acquisto della camera da letto del nascituro, la preoccupavano.

A un certo punto, però, "giurai a me stessa di essere soltanto la sorella", quindi di sostenere e basta. Impresa difficile, specie mentre Giulia stava sempre peggio: avvertiva odori nauseabondi nel latte, nell'acqua minerale, persino nei pomodori. In una vacanza per mercatini di Natale in Alto Adige "stava sempre con la borsa dell'acqua calda". Era spesso stanca, "uno stato di stanchezza anomalo". Era il veleno che le somministrava Impagnatiello. Un Impagnatiello che, quando Giulia sospettava i suoi tradimenti, replicava a brutto muso: "Tu sei pazza!".

Si capisce che Chiara parla di "imputato" perché in aula non può usare altre parole, ma la sua rabbia scorre sotterranea, come la lava dei vulcani, ed emerge quando ricorda di aver ricevuto la telefonata di A., l'altra ragazza, che le svelava i tradimenti di Impagnatiello. E si comprende il dolore, quando si commuove e dice che, dopo la morte di Giulia, tutto è cambiato: "Da figli siamo diventati genitori" e la vita di papà e mamma, dopo la perdita di Giulia e di Thiago, è "lavoro e cimitero".

Questa piccola frase continua ad aleggiare nell'aula e ci fa riflettere sul senso delle nostre vite, quando vengono spezzate da chi, sapendo piangere "a comando", è capace di fare il male, di non avere pietà e, sino all'ultimo, assolversi da solo. Lavoro e cimitero, lavoro e cimitero, lavoro e cimitero, che cos'altro resta ai parenti delle vittime se non arriva almeno un po' di giustizia?

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Piero Colaprico. Liceo al collegio Morosini, laurea in legge a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato nell’89 inviato speciale, nel 2006 responsabile del settore nera e giudiziaria, nel 2017 capo della redazione. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese, romeno. Da un suo saggio, “Manager calibro 9”, è stato tratto il film “Lo spietato”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.
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