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Quanti altri Domenico Livrieri? “Persone come i nostri figli per la società non esistono finché non uccidono”

“Non voglio che mio figlio diventi un nuovo Domenico Livrieri”. Lo dicono due mamme i cui figli, malati psichiatrici, sono sottoposti a misure cautelari. “Per la salute mentale non c’è un sostegno adeguato adeguato sul territorio”, alla loro voce si affianca quella di una terza famiglia, che ha dovuto farsi carico da sola di un figlio malato e potenzialmente aggressivo.
A cura di Chiara Daffini
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Gianluca (nome di fantasia) ha 23 anni, è cresciuto nell'hinterland milanese ed è affetto da disturbo borderline di personalità. Matteo (nome di fantasia) ha la stessa età e la stessa diagnosi, solo che vive in Veneto. Anche Valerio (nome di fantasia), 26 anni, calabrese, ha il disturbo borderline. Ma questi tre ragazzi non sono accumunati solo da una scritta sulla cartella clinica. Tutti e tre, fin da adolescenti e parallelamente all'insorgere del loro disagio psichico, hanno avuto comportamenti aggressivi e nei primi due casi sono arrivati a compiere reati.

A Fanpage.it parlano Maria, Marta (nome di fantasia) e Gina, le loro mamme. Queste donne, riunite nell'associazione Famiglie in rete – salute mentale, nei giorni scorsi hanno letto i giornali su cui campeggiava la notizia della morte di Marta Di Nardo, per cui è accusato e reo confesso Domenico Livrieri, 46enne schizofrenico che da marzo 2022 non era dove lo avevano collocato i magistrati, cioè in una Rems, ma a piede libero "per mancanza di disponibilità nonostante i ripetuti solleciti del pm alle autorità di competenza", come ha constatato nella convalida dell’arresto la gip Alessandra Di Fazio.

Maria, Marta e Gina, i cui figli in tre diverse situazioni sono stati sottoposti a misure cautelari, si sono sempre prese cura dei loro ragazzi e continuano a farlo, smentendo l'idea comune secondo la quale soggetti così pericolosi sono privi di un sostegno familiare. "Il problema – lo sottolineano tutte e tre – è che la loro malattia psichica non è stata sufficientemente presa in considerazione dai servizi territoriali quando ancora potevano non macchiarsi di reati".

E la paura è unanime. "Io – afferma Maria – convivo con il terrore che quando avrà il doppio degli anni che ha ora, o forse anche prima, mio figlio possa fare quello che ha fatto Livirieri". "Il mio – aggiunge Marta – non è un timore, ma una certezza: se non viene accolto, aiutato, supportato e portato a una condizione che gli consenta di condurre una vita normale, arriverà di nuovo a fare del male. A se stesso e agli altri".

La storia di Maria e Gianluca

Maria, mamma di Gianluca
Maria, mamma di Gianluca

Quella nella foto è Maria che mostra a Fanpage.it la porta del bagno presa a testate da suo figlio. "Prima che, a dicembre 2022, Gianluca venisse detenuto in un carcere milanese per uno dei venti procedimenti penali a suo carico – spiega la donna -, al posto del suo letto avevamo dovuto mettere un materasso per evitare che lo distruggesse".

"Un tempo – continua – Gianluca era diverso, giocava a basket, frequentava gli scout. Dall'adolescenza ha iniziato a dimostrare difficoltà a controllare la propria rabbia e frustrazione, gli è stato diagnosticato il disturbo borderline di personalità, ma nessuna comunità terapeutica né tanto la Uonpia (Unità operativa di neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza, ndr) e poi il Cps (Centro psico sociale, ndr) della zona sono riusciti a garantirgli l'assistenza di cui aveva bisogno, così a 17 anni è arrivato il procedimento per maltrattamenti in famiglia e quindi il carcere, proseguito a singhiozzo fino a oggi".

E lì, racconta Maria "c'è un generico supporto psichiatrico, perché ci sono psicologi e psichiatri che gli battono una pacca sulla spalla e lo ascoltano, però non è previsto un percorso di cura strutturato e basato sulle tecniche psicoterapeutiche riconosciute e specifiche per questo tipo di disturbo psichico". Ma se Gianluca non è più il ragazzino che gioca a basket e va agli scout, potrebbe peggiorare ancora: "Uno psichiatra che aveva in cura mio figlio – ricorda Maria – mi ha detto che il disturbo borderline, curabile, può evolvere in disturbo antisociale, a cui invece non c'è rimedio".

"Gli ho chiesto – continua la donna – come sia possibile passare dal provare le emozioni in modo troppo intenso (disturbo borderline della personalità, ndr) a non provarne più (disturbo antisociale, ndr) e quindi a non avere neanche compassione per gli altri, rischiando di far loro del male. La risposta del dottore è stata: ‘Con disturbo borderline non curato, le emozioni diventano talmente forti e intollerabili che diventa necessario gettare su di esse una colata di cemento. Così si diventa antisociali'".

Il problema quindi è a monte: "Pochi giorni dopo il diciottesimo compleanno di Gianluca sono andata al Cps chiedendo un colloquio e mi hanno detto che non mi avrebbero ricevuta perché mio figlio era maggiorenne, avrebbe dovuto venire lui, che ovviamente, proprio perché malato, se ne guardava bene dal chiedere aiuto. Sono rimasta quattro ore ad aspettare in sala d'attesa, poi, per sfinimento, la direttrice mi ha ricevuta. Ricordo ancora le sue parole: ‘Signora, o suo figlio viene qui, facendo naturalmente tutta la trafila, chiedendo al medico di base l'impegnativa, fissando un appuntamento nel giorno e all'orario che diciamo noi, oppure per noi suo figlio non esiste'".

"Ecco – conclude Maria – persone come mio figlio per la società non esistono, appaiono solo quando ammazzano qualcuno. Ma non bisogna porre il problema dell'anti socialità a 46 anni, perché Domenico Livrieri ne avrà avuti 23 come mio figlio e non si sa che cosa è stato fatto in quel momento di quel giovane uomo, allora magari ancora recuperabile".

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La storia di Marta e Matteo

"Mio figlio – racconta Marta a Fanpage.itfino ai 14 anni era un ragazzino normale: tranquillo, educato, senza grossi problemi. Poi, di punto in bianco, ha iniziato ad avere atteggiamenti aggressivi. Mio marito e io abbiamo cercato aiuto prima tramite la scuola, poi con uno psicoterapeuta privato e infine siamo approdati al Centro di salute mentale della nostra zona. Nessuno però, mentre i mesi e gli anni passavano, ha saputo prendere in mano la situazione".

"Così – continua Marta – Matteo è arrivato a compiere atti violenti in famiglia: ci minacciava con il coltello, una volta mi ha tirato i capelli e ha spinto con forza mio marito. Impauriti da questa situazione, siamo stati costretti a denunciarlo, ha girato diverse comunità, ma nessuna sembrava in grado di aiutarlo e aiutarci. Diventato maggiorenne ha iniziato a commettere reati anche fuori casa e dallo scorso ottobre è in una Rems in provincia di Verona".

"Siamo stati noi genitori a denunciarlo – ricorda la mamma di Matteo -, perché avevamo paura che ci fosse un'escalation di violenza: in casa rompeva porte, telefoni, divani, buttava bottiglie di vetro dal balcone, con il rischio che cadessero in testa a qualcuno… Non volevamo che arrivasse a compiere reati più gravi".

Oggi il ragazzo è al sicuro: "Mi sembra una buona struttura – dice Marta riferendosi alla Rems in cui si trova Matteo -, vedo che è seguito, ma il problema doveva essere risolto molto prima: per evitare che si arrivi ad avere bisogno di una Rems serve un sistema sanitario che funzioni a livello territoriale, anche per le malattie psichiatriche, invece non è così: basti pensare che solo nella mia provincia negli ultimi quattro anni due Csm sono stati accorpati a quello del capoluogo, che ora è in grave difficoltà per carenza di personale rispetto al bacino di utenti".

"Si continua ad attaccare il sistema giudiziario – commenta Marta -, ma io personalmente in esso ho trovato accoglienza per mio figlio, hanno cercato di dare una pena che fosse consona al problema del ragazzo. È invece in ambito sanitario che ho trovato lacune paurose. Si sono persi anni, fino a che non è più stato possibile averlo con noi a casa".

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La storia di Gina e Valerio

"I primi segnali che qualcosa non andava si sono manifestati intorno ai 12-13 anni. Abbiamo cercato di impedirgli in ogni modo di frequentare brutte compagnie, ma con gli anni la situazione è peggiorata, tanto da fargli lasciare la scuola per la troppa aggressività. A 16 anni gli è stato diagnosticato il disturbo borderline di personalità".

"Da subito abbiamo capito che per questa categoria di malati esiste nella sanità un ‘buco' – dice Gina -, abbiamo cercato un sistema per contenerlo, lo abbiamo anche denunciato per maltrattamenti in famiglia e ha trascorso quattro anni in varie comunità terapeutiche a doppia diagnosi per il recupero anche dalla tossicodipendenza. Valerio però continuava ad allontanarsi, nonostante il divieto di farlo imposto dal giudice tutelare".

"Proprio per questo – continua Gina – gli è stata imposta la Rems, a cui però non ha mai avuto accesso per mancanza di posti. Visto che nel contempo era invece caduto l'obbligo di risiedere in comunità, Valerio ha fatto ritorno a casa".

Sono passati tre anni da allora e Gina, insieme al marito e agli altri familiari, hanno voluto sostenere in ogni modo il figlio. "Abbiamo cercato di fare comunità per lui e di curarlo sia con una terapia farmacologica sia creando attorno a lui una rete di relazioni sociali positiva e inclusiva. In questa nostra lotta, però, siamo stati soli e aiutati esclusivamente da una rete di amicizie e conoscenze che lo hanno accolto offrendogli anche saltuariamente lavoro".

Oggi Valerio sta meglio, a detta della famiglia non è socialmente pericoloso e riesce a stare con gli altri, ma su di lui pende ancora la condanna alla Rems: "Questa possibilità – commenta la madre del ragazzo – ci spaventa molto ed è ormai diventata anacronistica e fortemente dannosa, poiché noi familiari abbiamo sopperito e supplito a quello che la sanità avrebbe dovuto fare. Valerio non è guarito naturalmente, purtroppo la sua è una patologia che difficilmente verrà superata, ma riesce a stare in società con il nostro aiuto".

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Tra sanità e giustizia

Ma che cosa sono le Rems e perché se ne parla? Dall'aprile del 2008 le competenze in materia di assistenza sanitaria alla popolazione detenuta sono passate dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale e, dal 2014, con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, gli autori di reato affetti di malattia mentale  vengono indirizzati alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems).

Queste strutture forensi sono gestite dal Servizio sanitario (delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano) e sono concepite con una funzione terapeutica e riabilitativa pura proprio per gli autori di reato con malattia psichiatrica. Al loro interno opera solo personale sanitario (e non più misto sanitario-penitenziario, come avveniva negli ospedali psichiatrici giudiziari e come continua ad accadere nel resto del mondo). Solamente l’attività perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna sviene eseguita, su accordo con la Prefettura, dalle forze dell’ordine.

Secondo la legge 81/2014 la Rems è considerata come extrema ratio rispetto alla possibilità di una gestione del paziente reo all’interno dei servizi di salute mentale sul territorio. Il giudice, infatti, per giustificare la custodia del paziente in questo tipo di struttura per un periodo di tempo considerevole, dovrà accertare la sussistenza di tre presupposti tra loro interdipendenti: la probabilità che il soggetto sospenda volontariamente le cure, in assenza di misura di sicurezza o se sottoposto a misura non detentiva; la probabilità che la sospensione delle cure induca a scompensi comportamentali; la probabilità che da tali squilibri comportamentali scaturiscano agiti tali da determinare dei fatti reato.

Secondo il XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, le Rems attive sul territorio nazionale sono una trentina, con un limite massimo di venti posti ciascuna fissato per legge. "È la prima volta – si legge nel rapporto – che nel sistema dell’esecuzione penale italiano viene introdotto il ‘numero chiuso'. Un principio tanto banale, quanto rivoluzionario: il numero di ospiti in Rems non può mai derogare la capienza massima e dunque le Rems non possono essere “sovraffollate”. Ciò ha prodotto una ‘lista di attesa' di persone che attendono di essere ricoverate in Rems. I casi più critici, sono coloro che trascorrono questa attesa in carcere".

Proprio sulle Rems alla fine del 2019 la Rivista di Psichiatria riteneva "non impellente, per il momento, la necessità di un aumento del numero dei posti letto totali, ma, al contrario, necessario un potenziamento dei servizi psichiatrici territoriali, per garantire percorsi adeguati di cura e riabilitazione".

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