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Giornata della memoria e i tatuaggi nazisti: “l’inutile violenza” secondo Primo Levi

Il 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria: per restituire alle milioni di vittime della Shoah la dignità del ricordo. Un ricordo duraturo e consapevole della complessa brutalità della quale l’uomo è stato sia vittima che responsabile, e dalla quale non esistono “salvati”. È a loro, insieme ai “sommersi”, che Primo Levi dedicò la sua ultima opera, ragionando su quella sottile linea che li separa.
A cura di Federica D'Alfonso
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La Memoria può avere valore nel presente e per il futuro solo se la si accetta come ancora attuale, necessaria, viva e pulsante sotto lo strato cristallizzato della retorica storica: solo accettandola come qualcosa di indelebile, incisa sulla pelle di tutti, che in ogni momento può tornare a sanguinare. È questo il senso che le assegnò Primo Levi, in una delle sue opere più consapevoli e, forse proprio per questo, tormentate.

La violenza inutile

La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua testimonianza.

Il passo è tratto dall'ultima opera di Primo Levi, “I sommersi e i salvati”, scritta e pubblicata un anno prima della morte. Un centinaio di pagine in cui l’uomo, ancora a distanza di decenni, torna a fare i conti con il peso insostenibile della memoria e con quella crudele distinzione operata dalla Storia fra i “sommersi” e i “salvati”. Levi torna a parlare dei colpevoli, delle responsabilità, della vergogna e della violenza che i campi di concentramento hanno saputo incarnare in tutta la loro consapevole follia: un intero capitolo è dedicato all'insensatezza dei rituali di annientamento praticati nei confronti dei prigionieri e, non a caso, proprio ai tatuaggi.

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L’autore ne parla come di un’invenzione “auschwitziana autoctona”: fu solo ad Auschwitz infatti, e solo a partire dal 1942, che i numeri di matricola dei prigionieri non furono più cuciti soltanto sulle giacche e i pantaloni, ma anche sulla pelle. Nei primi tempi sul petto, poi sul braccio, a tutti toccava subire questo violento rituale di identificazione senza identità, anche ai bambini, fatta eccezione per i prigionieri di chiara origine tedesca. L’essere costretti a portare quel marchio vergognoso era, in quel microcosmo fatto di paura e orrore, anche una crudele speranza di sopravvivenza: all'arrivo nel campo chi non veniva tatuato era immediatamente tradotto nelle camere a gas, poiché considerato non adatto al lavoro.

La violenza simbolica e la memoria: un confine sottile

L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete nome: questo è il vostro nuovo nome.

Tutta la brutalità del sistema nazista dei campi di concentramento è espressa da quelle poche linee incise nella pelle e riempite d’inchiostro: segni indelebili che per i pochi “savati” si sono trasformati nella peggiore delle umiliazioni, nei confronti delle vittime e della società tutta. Perché in molti casi, come ci ricorda Primo Levi, anche il Ricordo può essere la peggiore delle condanne a morte. Il tatuaggio ha identificato per anni i “salvati” dai “sommersi”, anche se oggi nella memoria delle nuove generazioni è solo un ulteriore ornamento da aggiungere alla fisionomia del terrore elaborata dal Nazismo, come se questo bastasse a comprenderla.

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Inutile, perché non finalizzata a nient’altro se non all'umiliazione, la violenza del tatuaggio assumeva così i caratteri di una vera e propria simbologia dell’annientamento assoluto: pensata e voluta per ricoprire d’inchiostro la storia personale ed individuale, studiata per ricordare in qualsiasi momento la fuoriuscita dalla condizione umana nel momento stesso in cui si varcava la soglia di Auschwitz. Ma nella definizione che si dà solitamente di “violenza simbolica” un dato fondamentale sfugge a qualsiasi comprensione: che quella del tatuaggio sarebbe stata una violenza anche per il futuro. Chi avrebbe continuato a portare quel tatuaggio (anche se nei progetti delle SS non doveva restare nessuno) avrebbe per tutta la vita fatto i conti con esso. E con una non-identità ormai incisa sulla propria pelle. Con una “salvezza” dannata:

A distanza di quarant'anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo. Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio cancellare, e questo mi stupisce: perché dovrei? Non siamo molti nel mondo a portare questa testimonianza.

Nel 2019 sono ancora meno le persone che portano questa testimonianza incisa sulla propria pelle. Ma la scomparsa graduale ed inevitabile delle testimonianze dirette non ci svincola dall'obbligo di ricordare che in qualsiasi momento l’abisso fra “sommersi” e “salvati” può riaprirsi risucchiandoci tutti: trasformare tutta la violenza scavata sulla pelle delle vittime in un’occasione di memoria attiva incisa nella nostra collettività sta a noi, perché non ci siano più né sommersisalvati.

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