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La storia di Sunjay, una voce libera nell’inferno del Cie di Ponte Galeria

“Cancelli e sbarre, sbarre e cancelli. Un lager, questo è ponte Galeria. Un luogo di sofferenza gratuita, dove ci sono persone che vengono dal carcere, persone prese per strada, persone che neanche dovrebbero stare qua”.
A cura di Claudia Torrisi
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Quando riesco a mettermi in contatto con lui, Sunjay sta protestando da alcuni minuti davanti un ufficio del Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma, dove è recluso dallo scorso 18 agosto. Minaccia sciopero di fame e sete e rifiuto dei medicinali se non gli verrà consegnato il foglio dove è prescritta la sua dieta. Pur essendo diabetico e vegetariano, infatti, gli vengono dati da mangiare pollo, salame, pasta e cibi molto zuccherati. “Io certe cose non posso mangiarle, mi si alza la glicemia. Dentro questo ufficio hanno un documento firmato dal medico il giorno del mio arrivo che attesta che sono diabetico e vegetariano. Sto cercando di prendere una copia per portarla sempre con me e non mi muoverò da qui finché non mi sarà data”, mi dice mentre litiga con i medici. Gli viene risposto sbrigativamente che ci sono tante fotocopie da fare e che deve andare via. Alla fine, dopo una lunga discussione, il foglio gli viene consegnato. “Sai perché l'ho preso? Dimostra che ho ragione. Non sarà più la mia parola contro la loro, visto che siamo considerati criminali e per questo bugiardi”, dice. Mentre parliamo, in sottofondo si sentono continuamente rumori di cancelli e porte pesanti che sbattono.

È la seconda volta che Sunjay Gookooluk, cittadino delle isole Mauritius di quasi 46 anni, viene portato a Ponte Galeria. Dopo l'arrivo in Italia nel 1989, ha avuto problemi con la giustizia e ha scontato alcuni anni di carcere per droga. Uscito da Rebibbia a gennaio 2014, nell'ottobre dello stesso anno è stato portato per la prima volta nel Cie dove è rimasto quasi tre mesi. Ne è uscito il 27 gennaio 2015, e da quel momento ha iniziato a tentare di ricostruirsi una vita a Roma. E c'era quasi riuscito: per quest'autunno è fissata l'udienza in cui forse gli verrà tolta la pericolosità sociale – che ha in quanto pluripregiudicato – e potrà completare la procedura di ricongiungimento familiare con la sorella, cittadina italiana, il che gli consentirà di ottenere finalmente dei documenti.

Lo scorso 18 agosto, però, è stato chiamato al telefono dalla Questura che lo ha convocato. “Ho chiesto se c'era qualche problema e se potevo mandare l'avvocato. Mi hanno rassicurato che era tutto a posto ma dovevo venire io personalmente per firmare”, racconta Sunjay. Per stare più tranquillo, si è fatto accompagnare in Questura dal suo amico giornalista Giacomo Zandonini, l'ultimo a vederlo prima della reclusione. “Mi hanno fatto firmare delle carte – relative a un vecchio ricorso – poi mi hanno chiesto i documenti – spiega Sunjay – Io ho tirato fuori il codice fiscale, la denuncia del passaporto delle Mauritius che non ho più, il bancomat”. Ma questi documenti non sono sufficienti, la polizia ha stabilito che deve essere fotosegnalato e lo ha portato via. Da quel momento, Sunjay è rimasto 25 ore senza poter parlare con nessuno e senza cellulare. “Ho passato la notte per terra con l'aria condizionata a palla, ho chiesto una coperta ma mi hanno detto che non l'avevano. Da mangiare ho ricevuto solo panini congelati. Alle 6 di sera mi hanno fatto firmare un faldone di carte. Ho ricevuto un'altra espulsione e sono stato accompagnato a Ponte Galeria, dove finalmente ho trovato un letto. Che fa schifo”. Una reclusione convalidata dal giudice, anche secondo il suo avvocato, troppo sbrigativamente: senza tener conto delle carte, di un precedente annullamento di decreto di espulsione, del ricongiungimento in corso e della malattia della sorella, che è vedova e in dialisi, bisognosa di assistenza.

Fin da quando era in prigione, Sunjay si è dato parecchio da fare. In carcere si è diplomato, è diventato mosaicista, ha letto tantissimo e ha iniziato a scrivere, vincendo anche alcuni concorsi letterari. Anche dentro Ponte Galeria – durante la sua prima esperienza – ha raccolto le sue testimonianze, tenendo un diario (di cui stralci sono stati già pubblicati) nonostante dentro al Cie sia vietato avere delle penne. “Ho scritto degli abusi e dei diritti negati. Io vorrei che mi condannassero perché ho rubato una penna per scrivere e far uscire la voce di cos'è il Cie: un sistema che incarcera ingiustamente centinaia di persone, colpevoli di non avere un pezzo di carta”, spiega. Non potendo avere fogli ha scritto ovunque: su cartoncini, rifiuti, pezzi di legno.

Durante queste prime settimane di nuova reclusione, Sunjay ha ricominciato a scrivere, a lasciare testimonianze in radio e su Facebook aggiornando – telefonicamente, internet non è permesso – una pagina a lui dedicata (dove è stata lanciata anche una petizione). “Racconto come passiamo le giornate. Se non riusciamo a esprimere o portare fuori i nostri problemi, finisce che non esistono. Invece devono uscire da queste mura”, dice.

Leggendo i suoi messaggi e parlando con lui si riesce ad avere un'idea chiara e nitida di cosa sia la vita nel Cie alle porte di Roma: “Cancelli e sbarre, sbarre e cancelli. Un lager, questo è ponte Galeria. Un luogo di sofferenza gratuita, dove ci sono persone che vengono dal carcere, persone prese per strada, persone che neanche dovrebbero stare qua, persone che hanno delle patologie incompatibili con la detenzione. Come il ragazzo che qualche giorno fa voleva suicidarsi perché in gravi condizioni di salute”. L'episodio cui si riferisce è quello di un recluso fermato da altri ospiti quando aveva già bagnato e attorcigliato due lenzuoli di carta, creando un cappio per impiccarsi. Solo uno dei tanti tentativi di suicidio o azioni eclatanti. Sunjay racconta che qualche giorno fa un signore del Marocco ha cercato di barricarsi dentro il camerone per non essere rimpatriato. “Lui ha sperato fino all'ultimo di essere libero – dice – Per non ripetere brutte scene davanti a noi, l'hanno chiamato all'ufficio immigrazione il penultimo giorno disponibile e lui tutto contento è andato. L'hanno trattenuto in isolamento e poi l'hanno rimpatriato”. E poi irruzioni nei cameroni al mattino presto, prelievi forzati al limite dell'umano.

Dentro il Cie i giorni sono infiniti: non c'è la televisione, svago, nessun contatto con il mondo a parte qualche chiamata dal cellulare: “Ti ammazzi di noia, è come essere cancellati. Ci sono dieci libri, chiamarla biblioteca è una vergogna. Pensa tu quanto può essere lunga la tua giornata: non hai nulla, stai solo con i tuoi problemi. Certe volte, anche se è dura, è meglio la lotta perché almeno ti smuovi”. Le lotte che racconta Sunjay sono quotidiane. Qualche giorno fa c'è stata una protesta collettiva perché la mensa ha distribuito fagiolini scaduti. “Glieli abbiamo gettati in faccia ed è arrivata subito la polizia – racconta – Ti rendi conto chi li aveva mangiati quanta rabbia aveva? E poi quando sei alterato si altera pure la polizia. Come si fa a dare cibo scaduto? Io voglio i miei diritti, se mi spettano li voglio, anche qua dentro”. Mercoledì sera, invece, venti persone hanno atteso ore la cena perché sono arrivati pasti in meno. “Ma se siamo numeri – ognuno qui dentro ha il suo, con cui ti chiamano – almeno trattateci così, fate i conti giusti. Evidentemente siamo ancora meno. È per tutte queste cose, soprusi quotidiani, che le persone qui si lamentano, sbattono le porte, urlano ogni giorno. Sennò nessuno ti ascolta, e finisce che non hai più paura dei manganelli, perché non c'è nulla da perdere”, ha testimoniato sulla pagina Facebook.

Del resto, a settembre del 2014, la commissione Diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, aveva redatto un rapporto sui Cie, risultato di un anno di ispezioni, in cui li definiva “centri strutturalmente afflittivi, spesso inadeguati nei servizi offerti e con scarsi mezzi di gestione”. Dal rapporto erano emerse “modalità di trattenimento inadeguate rispetto alla tutela della dignità e dei diritti”. Tutte le cose, racconta Sunjay, “qui dentro diventano uno strazio infinito. Quando stavo in carcere capivo che avevo fatto un reato e che stavo espiando una colpa. Qui la sofferenza è senza senso, è gratuita. Se io il documento lo voglio ma non ce l'ho, tu mi potrai identificare quante volte vuoi. L'unico modo che ho di lottare è che voi fuori sappiate che qui le persone hanno dei diritti, ma che spesso non vengono rispettati”.

Sunjay non scrive solo per denunciare quello che succede dentro al Cie. Ma anche perché da quando è uscito dal carcere è un invisibile: “Da anno e mezzo sto girando come un fantasma, senza un documento, gridando a tutti che voglio vivere normalmente”. Eppure, ammette, “ho fatto tutto ciò che la galera mi ha offerto, ho fatto la mia parte di autorecupero. Anche io chiedo il mio reinserimento nella società. Se è vero che la pena serve per recuperare e migliorare la persona, io chiedo quello. Se è vero che la legge è uguale per tutti, che venga anche a me concessa una possibilità”.

Potremmo quasi considerarlo un successo del nostro sistema penale, se non si trovasse nuovamente recluso e invisibile dietro altre sbarre.

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