383 CONDIVISIONI
Opinioni

La retorica della sicurezza e il populismo penale sono un pericolo per le persone perbene

La tolleranza zero e l’approccio punitivo sono pratiche fallimentari che creano più danni che benefici. Affrontare le questioni penali con umanità e garantire diritti e reinserimento sociale ai condannati non può essere liquidato come buonismo: conviene alla società, e soprattutto ai cittadini onesti.
A cura di Roberta Covelli
383 CONDIVISIONI
Immagine

Il diritto penale, cioè l’insieme delle norme che definiscono reati e punizioni, si è caratterizzato nella storia per profonde evoluzioni: da arbitrio assegnato alle vittime a potere pubblico statale, da riti discrezionali a procedimenti e sanzioni codificati con precisione, da supplizi punitivi a pene rieducative. Nonostante l’evoluzione umanistica degli ultimi secoli, esistono tuttavia parentesi -periodiche o geografiche- in cui l’approccio cattivista torna in auge e trova nuova linfa nel riproporre pene severe ed esemplari. Anche in Italia, negli ultimi anni, si sta affermando questo populismo penale e gli esempi non riguardano soltanto l’attuale governo: basti pensare alle aggravanti e alle limitazioni processuali legate alle norme securitarie sull’immigrazione, alla previsione di poteri di ordinanza in capo ai sindaci, a istituti come i daspo urbani, all’introduzione del reato di omicidio stradale o, per concentrarsi invece sul presente, alle promesse contenute nel cosiddetto Contratto di Governo, al decreto Salvini e alla retorica esibita da ministri della Repubblica.

Nella patria di Beccaria, far notare come questa politica sia contraria alla cultura giuridica umanistica su cui è fondata la democrazia finirebbe per essere lettera morta: in un’epoca in cui l’umanità e la garanzia dei diritti sono liquidati come buonismo è allora il caso di analizzare le proposte di severità penale con il metro della convenienza per quelle che, nei comizi dei nuovi profeti della sicurezza, vengono definite persone perbene.

Devono quindi innanzitutto essere escluse tutte quelle argomentazioni che abbiano a che fare con l’eventualità che anche una brava persona possa sbagliare (e che debba per questo confrontarsi con la giustizia) o con la possibilità che, per errori giudiziari, qualcuno che non ha commesso illeciti finisca per affrontare un processo e scontare una pena. Ammesso e non concesso quindi che le persone perbene non sbaglino mai, e che magistrati e tutori della legge garantiscano sempre la verità, abbandonare principi come il garantismo e la funzione rieducativa della pena resta comunque una pessima idea.

Guardare alla rieducazione del condannato significa infatti concepire la pena non come una semplice punizione, ma come un investimento: presto o tardi, la persona che ha commesso un reato tornerà a vivere nella società. Non garantire dignità al reo contrappone lo Stato -e la comunità che esso rappresenta- al singolo che sconta la sua pena, fomentando gli istinti di rivalsa ai soprusi subiti e impedendone il percorso di consapevolezza, l'assunzione di responsabilità rispetto alle proprie colpe, la possibilità di riparare all’errore. E anche se è possibile (e comprensibile) che un desiderio di vendetta alberghi nell’animo delle vittime, non è la crudeltà nei trattamenti correttivi a riparare il danno: l’astio tra chi ha commesso il reato e chi l’ha subito è così destinato a rimanere, e anzi a essere amplificato, condannando non solo il colpevole ma anche la vittima a non superare il fatto. Pratiche come quelle di giustizia riparativa, che mirano all’incontro tra i soggetti, ferme restando le responsabilità e la volontà di riparare del colpevole, eviterebbero invece l’acutizzarsi di un conflitto già drammatico, che avrebbe bisogno di riconoscimento ed elaborazione, più che di altra violenza.

Negare occasioni di recupero al condannato, inoltre, spinge chi ha scontato la sua pena -e dunque ha già pagato quanto doveva- ai margini della società: una comunità che non concede possibilità di vita onesta e dignitosa a chi esce di galera rischia quindi perfino di ricacciare nella delinquenza coloro che ne erano usciti pagando le colpe con la limitazione della propria libertà. Quando infatti la via legale è troppo impervia, la criminalità rischia di apparire quasi salvifica: nella sua pericolosità garantisce sussistenza a chi vi si affida. Un ordinamento consapevole delle spinte socio-economiche all’illegalità dovrebbe quindi aumentare le possibilità di vita onesta e dignitosa, garantendo il reinserimento sociale di coloro che hanno commesso reati.

Nello stesso senso si pongono le ipotesi di misure alternative e di sospensione condizionale della pena. Quest’ultimo istituto, ad esempio, prevede che la pena sia sospesa nel caso in cui si venga condannati a meno di due anni di carcere (sempre che non emergano circostanze di reato che sconsiglino la libertà del soggetto). La logica è molto semplice: se chi ha commesso un reato non molto grave finisce in carcere, oltre a subire un impatto negativo nella sua vita familiare e lavorativa, potrebbe anche entrare in contatto con realtà criminali maggiormente organizzate, all’apparenza allettanti per le occasioni di impiego e di conseguente guadagno illecito. Nel predicare tolleranza zero, imponendo in ogni caso il carcere, si rischia così di portare in galera chi ha commesso un reato occasionale per ritrovare alla fine della pena un delinquente formato, inserito in un contesto criminale: un pericolo ben più grave per le persone perbene.

Per non parlare, poi, di quegli esempi di populismo penale che rimettono nelle mani dei privati, delle cosiddette brave persone, la tutela contro i criminali. È il caso di teorie come la difesa sempre legittima: al di là della drammatica scelta di privilegiare, sulla vita di un essere umano (qual è anche un ladro), la difesa del patrimonio, invertendo cioè l’ordine di priorità con l’affermazione di un sistema etico in cui la cosa vale più della persona, garantire al singolo il potere di uccidere chiunque gli entri in casa, è innanzitutto una dichiarazione di impotenza dell’autorità pubblica, incapace di garantire sicurezza ai consociati. Anche volendo accettare questa incapacità istituzionale, comunque, mettere nelle mani di chiunque un’arma implica l’eventualità che l’arma sia utilizzata, che ferisca per errore, che uccida per inesperienza. Non solo. Chi è deciso a compiere un furto, consapevole dell’eventualità di trovare il derubato armato, si presenterà senza armi? E tra un padrone di casa assonnato e inesperto e un ladro carico di adrenalina e consapevole del suo progetto criminoso, chi rischia di più di essere ferito in uno scontro? Come per il reato di omicidio stradale, che non ha ridotto gli incidenti ma ha aumentato le omissioni di soccorso (con un danno evidente proprio per le vittime che la legge voleva difendere), anche l'invito ai privati cittadini di armarsi, legalizzando l'omicidio in difesa del patrimonio, rischia di sostituire i furti in appartamento con le rapine: ennesimo esempio di eterogenesi dei fini, che provoca effetti opposti da quelli che ci si propone.

Insomma, altro che sicurezza: l’approccio securitario e cattivista nella politica criminale finisce così non solo per violare i diritti e attentare ai fondamenti giuridici del sistema democratico, ma per mettere in pericolo soprattutto le persone perbene.

383 CONDIVISIONI
Immagine
Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views