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Questo sintomo può essere un segnale precoce di Alzheimer: precede la perdita di memoria

Un team di ricerca internazionale ha determinato che la riduzione dell’olfatto (iposmia) può essere un segnale precoce della demenza. Hanno infatti svelato come l’Alzheimer può innescare i deficit olfattivi, che compaiono ben prima dei sintomi cognitivi, come la perdita di memoria e i problemi di linguaggio e orientamento.
A cura di Andrea Centini
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La riduzione della capacità di percepire gli odori può essere un segnale precoce di Alzheimer, la principale forma di demenza al mondo. Esistono molteplici condizioni in grado di innescare deficit olfattivi, dalla COVID-19 causata dal coronavirus SARS-CoV-2 alla presenza di polipi nasali, passando per problemi al setto nasale, ma è noto da tempo che anche malattie neurodegenerative alla stregua dei morbi di Alzheimer e Parkinson sono caratterizzate dall'iposmia. Un nuovo e approfondito studio pubblicato su Nature Communications ha ora svelato i meccanismi biologici che legano la demenza alla riduzione della capacità di percepire gli odori, dovuta all'aggressione di cellule immunitarie cerebrali contro le fibre neuronali coinvolte nei segnali olfattivi.

Poiché questi cambiamenti nell'olfatto si verificano ben prima della comparsa dei deficit cognitivi, come la perdita di memoria, con appositi test i medici possono individuare precocemente le persone a rischio Alzheimer e avviarle ai trattamenti più appropriati. È infatti noto che gli anticorpi monoclonali recentemente approvati, come il Donanemab, sono efficaci nel rallentare sensibilmente la progressione della demenza (fino al 39 percento nei trial clinici) se somministrati nella fase precoce della malattia.

A svelare i meccanismi biologici che legano i deficit olfattivi al morbo di Alzheimer è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati del Centro tedesco per le malattie neurodegenerative (DZNE) di Monaco di Baviera, che hanno collaborato con i colleghi di vari istituti: fra quelli coinvolti l'Istituto di Neuroradiologia dell'Ospedale LMU, il Centro di Neuropatologia e Ricerca sui Prioni della Ludwig-Maximilians-Universität, la Facoltà di Medicina e Salute dell'Università di Sydney (Australia) e altri. I ricercatori, coordinati dal dottor Lars Paeger del DZNE, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto una serie di test su modelli murini (topi) e pazienti, come ad esempio esami di diagnostica per immagini avanzati alla stregua delle scansioni PET (Tomografia a Emissione di Positroni).

Dalle indagini è emerso che i cambiamenti iniziali innescati dal morbo di Alzheimer determinano un'aggressiva risposta immunitaria delle cellule di microglia verso le fibre neuronali coinvolte nella percezione degli odori. Più nello specifico, sono in grado di interrompere lo scambio di segnali tra due aree del cervello alla base del senso dell'olfatto: il bulbo olfattivo e il locus coeruleus. La prima regione, localizzata nel proencefalo, è il centro di elaborazione iniziale degli odori “catturati” dai recettori nelle mucose nasali; la seconda, presente nel tronco encefalico, modula l'informazione olfattiva grazie al rilascio del neurotrasmettitore noradrenalina. Il locus coeruleus è intimamente connesso al bulbo olfattivo grazie a lunghe fibre nervose. Il dottor Paeger e colleghi hanno evidenziato il meccanismo fisiopatologico che porta a questa interruzione di comunicazione tra le due aree cerebrali, sfociando nei deficit olfattivi.

Nelle fasi iniziali, infatti, secondo gli autori dello studio il morbo di Alzheimer modifica le fibre neuronali (assoni) che mettono in comunicazione il bulbo olfattivo e il locus coeruleus, trasformandole in un bersaglio per le cellule di microglia, che le riconoscono come inutili e difettose, quindi da eliminare. Si innesca una risposta immunitaria anomala che distrugge queste fibre, determinando così l'iposmia. Più nello specifico, nelle membrane di queste fibre viene spostato all'esterno un acido grasso chiamato fosfatidilserina, che in condizioni normali è un segnale che innesca la fagocitosi, al fine di far "ripulire" il tessuto cerebrale da connessioni superflue e non funzionanti. I ricercatori ritengono che l'Alzheimer alteri le connessioni neuronali facendo migrare la fosfatidilserina all'esterno delle membrane, avviando così tutto il meccanismo fisiopatologico.

Un recente studio cinese ha evidenziato che i segnali precoci dell'Alzheimer possono essere colti fino a 18 anni prima della comparsa del declino cognitivo – caratterizzato da alterazioni nel linguaggio, problemi di orientamento, perdita della memoria etc etc – e della conseguente diagnosi di demenza. Tuttavia si tratta della comparsa di biomarcatori come la beta-amiloide 42 nel liquido cefalorachidiano, che possono essere rilevati solo attraverso esami invasivi ad hoc. I deficit olfattivi sono invece tra i primi a poter essere percepiti direttamente dai pazienti, per questo gli scienziati raccomandano le persone a farsi visitare nel caso in cui si accorgano di simili variazioni. I medici potrebbero indirizzarli verso test più esaustivi e identificare la demenza nella sua fase iniziale, permettendo così i migliori risultati terapeutici grazie agli opportuni trattamenti.

Un recente studio dell'Università di Chicago suggerisce che un test dell'olfatto può davvero aiutare a identificare precocemente le persone a rischio Alzheimer, mentre ricercatori australiani indicano che mettersi le dita del naso può aumentare il rischio di ammalarsi. I dettagli della nuova ricerca “Early Locus Coeruleus noradrenergic axon loss drives olfactory dysfunction in Alzheimer’s disease” sono stati pubblicati su Nature Communications.

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