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I segnali dell’Alzheimer possono essere colti 18 anni prima della diagnosi: quali sono

Gli scienziati hanno identificato quando e in quale sequenza compaiono i segnali predittivi dell’Alzheimer, dopo aver seguito migliaia di persone per 20 anni. I primi biomarcatori diventano visibili già 18 anni prima della diagnosi, spesso legata alla perdita della memoria e ad altre disfunzioni cognitive. Ecco quali sono le firme biologiche della demenza e quando si manifestano.
A cura di Andrea Centini
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I primi segnali del morbo di Alzheimer possono essere rilevati quasi 20 anni prima che si manifestino i caratteristici sintomi della malattia neurodegenerativa, come perdita di memoria, difficoltà nel linguaggio e altre disfunzioni legate al declino cognitivo. Nel corso di questo lungo periodo, secondo un nuovo studio pubblicato sul The New England Journal of Medicine, la variazione nella concentrazione di determinate proteine (placche di beta amiloide e grovigli di proteina tau) e le alterazioni nel tessuto cerebrale compaiono in sequenza e a tappe definite, fino a sfociare nella condizione patologica. È doveroso ricordare che l'accumulo di beta amiloide, pur essendo considerato tra i principali segni associati all'Alzheimer, non è presente in tutte le persone colpite dal morbo.

L'andamento delle firme biologiche della demenza era già noto da tempo per le forme ereditarie della patologia, che può palesarsi anche in età molto precoce (è noto il caso di un ragazzo di 19 anni), tuttavia grazie alla nuova ricerca la progressione temporale dei biomarcatori dell'Alzheimer è stata osservata anche nella sua forma sporadica, quella maggiormente diffusa. Si tratta di un risultato significativo poiché comprendere i segnali predittivi della malattia, che si manifestano nell'intervallo tra lo stato cognitivo sano e quello compromesso, può essere estremamente prezioso per la diagnosi precoce e, di conseguenza, l'efficacia delle terapie. I pochi farmaci approvati e in sperimentazione contro l'Alzheimer, del resto, offrono i migliori risultati quando la patologia viene combattuta nelle fasi iniziali.

A rilevare la lunga sequenza dei segnali dell'Alzheimer prima della comparsa dei sintomi diagnostici è stato un team di ricerca cinese guidato da scienziati del Centro di innovazione per i disturbi neurologici – Dipartimento di Neurologia dell'Ospedale Xuanwu, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di molteplici istituti. Fra quelli coinvolti il Centro per la malattia di Alzheimer – Istituto di Pechino per i disturbi cerebrali; l'Ospedale Anding e il Dipartimento di Psichiatria dell'Ospedale popolare provinciale di Zhejiang. I ricercatori, coordinati dal professor Jianping Jia, hanno condotto uno studio caso-controllo multicentrico con migliaia di partecipanti, tutti coinvolti nello studio China Cognition and Aging Study (COAST) eseguito fra gennaio 2000 e dicembre 2020. In questo arco temporale una parte dei volontari è stata sottoposta a una serie di esami regolari (ogni due o tre anni), fra i quali test del liquido cerebrospinale (CSF), scansioni cerebrali e valutazione della funzione cognitiva attraverso test standardizzati alla stregua del Clinical Dementia Rating-Sum of Boxes (CDR-SB).

I partecipanti erano uomini e donne sia di mezza età che anziani (età media 61 anni, 50,6 percento maschi) che al basale avevano tutti uno stato cognitivo normale. I ricercatori hanno messo a confronto e abbinato i casi di 648 individui che hanno mantenuto una cognizione sana (gruppo di controllo) con 648 persone che, durante il periodo di follow-up durato esattamente 19,9 anni, si sono ammalati di Alzheimer. In questo modo, analizzando e abbinando i risultati degli esami condotti a intervalli regolari, è stato possibile determinare in quale momento e in che modo si sono manifestati i biomarcatori della neurodegenerazione, fino alla comparsa del declino cognitivo e alla diagnosi di demenza.

Il segnale più precoce a emergere è stato un aumento nella concentrazione della proteina beta-amiloide 42 nel liquido cerebrospinale (o cefalorachidiano), già rilevabile 18 anni prima della diagnosi di Alzheimer. A 14 anni dalla diagnosi è stata invece rilevata una differenza nel rapporto tra beta-amiloide 42 e beta-amioide 40, due forme di proteine “appiccicose”, il cui accumulo nel sistema nervoso è tipicamente associato alla neurodegenerazione. A 11 anni i ricercatori hanno osservato un incremento della proteina tau 181 fosforilata nel gruppo Alzheimer, mentre a 10 anni l'incremento riguardava la tau nel suo complesso. A 9 anni sono stati rilevati i primi segnali del danno neuronale, determinato dalla presenza della catena leggera del neurofilamento (NfL) nel liquido cerebrospinale, che riguarda in particolar modo gli assoni. A 8 anni le risonanze magnetiche hanno evidenziato nel gruppo Alzheimer l'atrofia dell'ippocampo, una parte del cervello coinvolta nella cognizione. A 6 anni dalla diagnosi, infine, risultava evidente il declino cognitivo attraverso i test standardizzati per valutare la demenza.

Oltre ad aver rilevato questa interessante progressione, il professor Jia e colleghi hanno determinato che nel gruppo Alzheimer vi era una maggiore probabilità (37,2 percento contro 20,4 percento del gruppo di controllo) di essere portatori di una variante genetica chiamata APOE4. Il dato conferma l'associazione già emersa in passato tra questa variante del gene – coinvolto nel metabolismo e nel trasporto dei lipidi nel cervello – e la forma di demenza più diffusa al mondo. Conoscere l'andamento temporale dei biomarcatori della malattia di Alzheimer e il ruolo della genetica può essere di enorme aiuto nella prevenzione e nel contrasto della patologia, che ad oggi, secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), riguarda oltre 40 milioni di persone (un dato destinato a triplicare entro il 2050). I risultati dello studio, commentati su Fanpage.it dal professor Andrea Fuso, dovranno comunque essere confermati in studi con popolazioni più ampie e diversificate. I dettagli della ricerca “Biomarker Changes during 20 Years Preceding Alzheimer’s Disease” sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica The New England Journal of Medicine, considerata la più autorevole in campo medico.

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