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La dieta tradizionale giapponese può rallentare il declino cognitivo: soprattutto per le donne

Uno studio condotto su quasi 2.000 giapponesi adulti ha osservato che rispetto alla dieta occidentale la dieta giapponese tradizionale può ridurre il restringimento del volume cerebrale e quindi il declino cognitivo, avendo un effetto protettivo sulla salute cerebrale. Tuttavia, gli effetti riguardano praticamente solo le donne.
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Nel mondo ci sono alcune località abitate da un numero di centenari molto maggiore rispetto alla media. Si chiamano "zone blu" e ne esistono solo cinque in tutto il mondo. Una di queste è la prefettura di Okinawa, nel Sud del Giappone (un'altra si trova in Sardegna): qui circa 20 abitanti su 100.000 superano i 100 anni. Gli studi condotti per scoprire i motivi della longevità degli abitanti di Okinawa hanno rivelato già da tempo il ruolo determinante svolto dall'alimentazione.

In realtà, oltre il caso straordinario di Okinawa, la dieta giapponese tradizionale è nota per le sue proprietà benefiche. Ora un nuovo studio ha  dimostrato perfino che alcuni alimenti tipici della cucina giapponese, come il miso, le alghe, i sottaceti, la soia, il tè verde e i funghi shiitake, potrebbero rallentare il declino cognitivo e quindi ridurre il rischio di demenza nelle donne.

Dieta giapponese e dieta occidentale a confronto

Per condurre lo studio, appena pubblicato sulla rivista specialistica Nutrition Journal, i ricercatori hanno preso in esame un gruppo di 1.636 adulti giapponesi tra i 40 e 89 anni. Il loro obiettivo era studiare gli effetti delle loro reali abitudini alimentari, quindi non hanno imposto nessuna dieta da seguire, ma hanno semplicemente detto ai partecipanti allo studio di mangiare come avrebbero fatto abitualmente e di scattare una foto a ogni loro piatto, prima e dopo aver mangiato, così da tenere traccia del loro stile alimentare quotidiano.

Dai dati raccolti è stato possibile dividere il campione in tre gruppi in base alle loro abitudini alimentari. Di tutti i partecipanti, 589 hanno seguito una dieta giapponese tradizionale, a base di riso, pesce e frutta, soprattutto agrumi, ma anche a basso apporto di carne e caffè e con frequente consumo di quegli alimenti tipici che non ci sono nella dieta occidentale, come miso, alghe, soia e tè verde. Altre 697 persone hanno seguito una dieta tipicamente occidentale, con una forte prevalenza di cibi ricchi di grassi, zuccheri raffinati e alcol. Per finire, un gruppo di 350 persone ha seguito uno stile alimentare con molti cereali, vegetali e latticini.

Gli effetti sul cervello delle donne

Per capire come l'alimentazione influisse sul declino cerebrale i ricercatori hanno osservato per due anni consecutivi i partecipanti, monitorando la progressione dell'atrofia cerebrale – un valore utilizzato come marcatore della demenza – e la perdita di neuroni. Hanno tenuto conto anche di altri fattori che avrebbero potuto avere un ruolo, considerando ad esempio se i partecipanti fumassero o facessero attività fisica, oltre alla presenza di altre malattie.

Da questi anni di osservazione è emerso che le donne che seguivano la dieta tradizionale giapponese avevano avuto un minore restringimento cerebrale, ovvero un più lento declino cognitivo, rispetto a quelle del gruppo che avevano seguito la dieta occidentale. Sugli uomini, invece, non sono state rilevate differenze significative tra le due diete. Mentre gli effetti della dieta del terzo gruppo sono meno chiari, in entrambi i sessi.

Gli studiosi hanno ipotizzato diverse spiegazioni sull'assenza di effetti benefici nei partecipanti di sesso maschile del gruppo che aveva seguito la dieta giapponese tradizionale. Tra queste c'è anche quella secondo cui negli uomini erano più frequenti quelle cattive abitudini, come fumo e consumo di alcool. Mentre uno dei motivi per cui la dieta giapponese tradizionale ha avuto un effetto positivo sulle donne – spiegano i ricercatori – potrebbe essere la forte presenza di alimenti ricchi di vitamine, polifenoli e altre sostanze dalle note proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, anche se – specificano i ricercatori – restano necessari ulteriori studi per confermare queste ipotesi.

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