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La Covid provoca l’accumulo di placche dell’Alzheimer negli occhi e nel cervello: cosa significa

Un team di ricerca statunitense ha dimostrato che l’infezione causata dal coronavirus SARS-CoV-2 innesca l’accumulo di placche di beta-amiloide negli occhi e nel cervello, probabile causa della “nebbia mentale”. Perché è una scoperta molto importante per combattere il morbo di Alzheimer.
A cura di Andrea Centini
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L'infezione del coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della COVID-19, può innescare la formazione delle placche di beta-amiloide negli occhi e nel cervello. Questi aggregati di proteine, che potrebbero essere l'innesco della famigerata “nebbia mentale” riscontrata nei pazienti Covid, sono ampiamente noti perché strettamente associati alla neurodegenerazione del morbo di Alzheimer, assieme ai grovigli di proteina tau. Non è ancora chiara la ragione dell'accumulo di queste placche nel tessuto cerebrale, tuttavia il fatto che si verifichi anche a causa di un'infezione virale può sia migliorare la comprensione della principale forma di demenza che aiutare gli scienziati a trovare una soluzione contro la sopracitata nebbia mentale o cerebrale, un insieme di sintomi cognitivi rilevati nelle persone infettate dal patogeno pandemico. Problemi di memoria, confusione, difficoltà di concentrazione e diversi altri sintomi sono comuni tra i pazienti Covid, in particolar modo quelli colpiti dalla forma grave della malattia.

A determinare che l'infezione del coronavirus SARS-CoV-2 può innescare l'accumulo di beta amiloide negli occhi (più precisamente nella retina) e nel cervello è stato un team di ricerca statunitense guidato da scienziati della Facoltà di Medicina della prestigiosa Università di Yale, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di vari istituti. Fra quelli coinvolti il Dipartimento di neurologia del Massachusetts General Hospital e la Facoltà di Scienze e Tecnologia dell'Endicott College. I ricercatori, coordinati dal professor Brian P. Hafler, docente presso il Dipartimento di Oftalmologia e Scienze della Vista dell'ateneo americano, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto test di laboratorio sia con tessuto retinico donato alla scienza che su organoidi retinici, ovvero minuscole strutture tridimensionali costituite da cellule staminali umane, indotte a trasformarsi in cellule retiniche. Sono considerati un banco di prova migliore della sperimentazione animale.

Analizzando le retine di persone affette da Alzheimer, i ricercatori hanno osservato la presenza delle placche di beta-amiloide, pertanto queste membrane – che fanno parte a tutti gli effetti del sistema nervoso centrale – possono riflettere ciò che avviene nel cervello, rappresentando un prezioso elemento diagnostico per le patologie neurodegenerative. Curiosamente, anche le retine dei donatori affetti da COVID-19 mostravano questi aggregati proteici. Per determinare la natura di questa presenza, gli studiosi hanno indagato sulle capacità del SARS-CoV-2 di penetrare direttamente nella retina, così sono andati a “caccia” dei recettori che permettono l'infezione. Hanno cercato sia la proteina NRP1 (neuropilina-1) che l'ACE2, ai quali si aggancia la proteina S o spike del patogeno. Dai test è stata rilevata la presenza di NRP1 nel tessuto retinico dei donatori affetti da Covid. Ciò significa il virus ha la possibilità di infettare direttamente le cellule degli occhi.

Per verificarlo, il professor Hafler e colleghi hanno esposto gli organoidi retinici alla proteina S del SARS-CoV-2, osservando che questa interazione determinava l'aumento delle placche di beta-amiloide nel tessuto, con concentrazioni simili a quelle osservate nei pazienti con Alzheimer. "Il nostro studio ha dimostrato che l'esposizione al SARS-CoV-2, in particolare alla proteina spike, può portare alla formazione di aggregati di beta-amiloide sia nel tessuto retinico umano che negli organoidi retinici", ha spiegato il professor Hafler in un comunicato stampa, sottolineando che questa scoperta potrebbe spiegare la reale natura delle placche di beta-amiloide nei pazienti con Azheimer. "Questo rafforza l'ipotesi antimicrobica della beta-amiloide nel morbo di Alzheimer, suggerendo che la beta-amiloide possa agire come parte della risposta immunitaria innata del cervello contro le infezioni virali”, ha affermato l'esperto. In parole semplici, questi aggregati potrebbero essere una sorta di scudo contro l'invasione di agenti patogeni, che nei pazienti con Alzheimer può rappresentare un serio problema a causa del deterioramento della barriera ematoencefalica.

Da questi risultati si evince che l'infezione delle cellule nervose retiniche da parte del coronavirus può essere l'innesco della nebbia mentale, ma potrebbe catalizzare (assieme ad altri patogeni) anche l'insorgenza della demenza. Utilizzando un inibitore contro la neuropilina-1 sui tessuti retinici, i ricercatori sono riusciti a invertire l'accumulo degli aggregati proteici; ciò potrebbe portare a nuovi farmaci in grado di combattere sia il declino cognitivo causato dalla Covid che i processi neurodegenerativi legati alla demenza. I dettagli della ricerca “SARS-CoV-2 induces Alzheimer’s disease–related amyloid-β pathology in ex vivo human retinal explants and retinal organoids” sono stati pubblicati su ScienceAdvance.

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