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La composizione delle feci può prevedere il rischio di morte imminente, secondo uno studio

Ricercatori dell’Università di Chicago hanno determinato che le caratteristiche del microbiota intestinale e dei metaboliti fecali, rilevabili in campioni di feci, possono rilevare con buona precisione il rischio di morte di una persona nei successivi 30 giorni.
A cura di Andrea Centini
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I ricercatori hanno determinato che un'analisi accurata delle feci può prevedere con precisione il rischio di morte imminente di una persona, ovvero nell'arco dei successivi 30 giorni. La composizione di batteri e metaboliti rilevati, che riflette le caratteristiche e la qualità del microbiota intestinale, può essere infatti considerata una sorta di biomarcatore in grado di predire le probabilità di morire a breve termine. Gli scienziati hanno messo a punto una scala chiamata punteggio di disbiosi metabolica o MDS (acronimo di metabolic dysbiosis score) grazie alla quale è possibile determinare quanto è critica la situazione di un paziente. Non si tratta di una misurazione fine a se stessa, ma di un metodo che identifica le persone ad alto rischio di morte e che permette (potenzialmente) di intervenire con trattamenti ad hoc per migliorare le probabilità di sopravvivenza.

A determinare che l'analisi del materiale fecale può predire il rischio di morte imminente è stato un team di ricerca statunitense guidato da scienziati del Duchossois Family Institute dell'Università di Chicago, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Medicina, Sezione di Medicina Polmonare e Terapia Intensiva dell'Università di Medicina di Chicago. I ricercatori, coordinati dai professori Alexander P. de Porto, Eric G. Pamer e Bhakti K. Patel, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver raccolto e analizzato i campioni fecali di circa 200 pazienti in condizioni critiche ricoverati in terapia intensiva. Erano tutti in shock o con insufficienza respiratoria non innescata dalla forma grave della COVID-19, la malattia provocata dal coronavirus SARS-CoV-2. Hanno suddiviso questi pazienti in due gruppi principali (uno di 147 persone e l'altro di 49) e sono andati “a caccia” di correlazioni tra le caratteristiche del loro microbiota e le probabilità di morire nelle successive quattro settimane.

È noto da tempo che i pazienti critici ricoverati in terapia intensiva presentano una ridotta diversità del microbiota intestinale e concentrazioni alterate di metaboliti associati al microbioma, ma non tutti rispondono alle terapie allo stesso modo: c'è chi riesce a recuperare e chi perde la vita. L'obiettivo degli scienziati era identificare i profili del microbiota intestinale più ad alto rischio – cioè correlati a una maggiore probabilità di morire – e avere così un quadro più chiaro sul quale poter intervenire per riequilibrare la disbiosi intestinale, magari con probiotici e altri trattamenti. La disbiosi, come spiegato dall'Istituto Humanitas “è una condizione di squilibrio microbico causata da una crescita eccessiva di batteri ‘cattivi' all’interno dell’intestino, che ne provocano l’irritazione”. Poiché la flora batterica intestinale è strettamente associata al sistema immunitario, essa può giocare un ruolo significativo sulla nostra salute. Non c'è da stupirsi che il microbiota intestinale sia stato associato a numerose e severe patologie, dal morbo di Alzheimer al Parkinson, così come alcune infezioni e tumori.

Il professor de Porto e colleghi hanno analizzato il microbiota dei pazienti critici attraverso il sequenziamento metagenomico definito “shotgun” (una tecnica di indagine sul DNA) e quantificato i metaboliti legati alla flora batterica intestinale con la spettrometria di massa. I metaboliti del microbiota intestinale sono sostanze chimiche prodotte dai batteri, come acidi grassi e sostanze simili ai neurotrasmettitori. I ricercatori hanno identificato nel materiale fecale 13 metaboliti associati al rischio di mortalità entro 30 giorni, che sono alla base del punteggio di disbiosi metabolica. “L'MDS ha ottenuto buoni risultati nel prevedere la mortalità nella coorte di pazienti in terapia intensiva ricoverati, con un'accuratezza dell'84%, una sensibilità dell'89% e una specificità del 71%”, hanno affermato i ricercatori a Science Alert. Nel secondo gruppo di una cinquantina di pazienti non è stata tuttavia raggiunta la significatività statistica, probabilmente a causa del campione ridotto.

I risultati preliminari sono promettenti, ma dovranno essere confermati da studi più approfonditi, ciò nonostante gettano le basi per mettere a punto potenziali terapie salvavita nei contesti ospedalieri più critici. I dettagli della ricerca “Fecal metabolite profiling identifies critically ill patients with increased 30-day mortality” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica ScienceAdvances.

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