Anthea e Andrea, addestramento da astronauti tra sogno, sfide ed emozioni: il racconto a Fanpage.it

Esattamente tre anni fa, nel novembre del 2022, l'ingegnere aerospaziale Anthea Comellini (classe 1992) e il pilota collaudatore sperimentatore Andrea Patassa (classe 1991) sono stati scelti come membri del corpo di Riserva degli Astronauti e delle Astronaute dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA), dopo aver superato una rigida selezione fra oltre 22.000 candidati, 2.000 dei quali italiani. Il loro sogno, come raccontatoci in una precedente intervista, ha avuto inizio con una telefonata da un numero francese, dove l'interlocutore parlava inglese ma con un accento austriaco: era Josef Aschbacher, il direttore generale dell'ESA, che annunciava loro il superamento della selezione. Da allora, oltre all'inevitabile cascata di emozioni che una conquista del genere comporta, sono subentrati i vari impegni istituzionali e soprattutto i preparativi per trasformare i due giovani talentuosi negli astronauti di domani.
Tra gli impegni principali che li coinvolgono vi è l'ART (Astronaut Reserve Training), un programma di formazione dell'ESA suddiviso in tre moduli da circa due mesi ciascuno. Si svolge principalmente presso l'EAC (European Astronaut Centre) a Colonia, in Germania, tra lezioni teoriche e sessioni di addestramento pratiche, condite da “escursioni” altrove – come il test di sopravvivenza svoltosi sui Pirenei – per garantire una preparazione a tutto tondo. Anthea e Andrea hanno da poco completato il secondo di questi moduli e, in occasione di alcuni impegni a Roma, Fanpage.it ha avuto l'opportunità di intervistarli nuovamente, dopo l'incontro all'ESA-ESRIN di Frascati. Ecco cosa ci hanno raccontato.
Com'è stato l'approccio a questo secondo modulo, dal punto di vista emotivo e della preparazione, rispetto al primo?
(Andrea Patassa). Rispetto al primo addestramento c'è stata la sensazione di tornare a casa, perché la prima volta, ovviamente, è stato un grosso impatto. Dovevamo conoscere le dinamiche e tutti. Questa volta sembrava di essere andati via da una settimana. Secondo me è stato molto più bello perché siamo riusciti a fare questo blocco tutti insieme, mentre nella prima fase siamo stati suddivisi in due sottogruppi. Facendolo tutti assieme abbiamo sicuramente stretto la coesione del gruppo e questa per me è stata la parte più bella.
(Anthea Comellini). Sì, sottoscrivo tutto. Anche secondo me la differenza più grande è stata proprio il rapporto di familiarità che si è creato sia con l'ambiente che con le persone che sono lì. Quindi la maggiore fiducia nei legami, la possibilità di stare tutti assieme e la familiarità ci hanno permesso di creare questo spirito di corpo.

Tra gli impegni di questo modulo ci sono state esperienze di sopravvivenza e simulazioni di emergenze, come ad esempio la fuga da un hangar a fuoco e un ammaraggio. Qual è stata la parte più complicata?
(Anthea Comellini). Credo che per i candidati astronauti questo tipo di survival training siano quasi la parte più divertente, perché noi agogniamo il momento in cui facciamo qualcosa di pratico, che ci metta in gioco non solo con la mente ma anche col corpo, quindi un tutt'uno. Personalmente sono state le parti che mi hanno divertito di più, sia durante la prima sessione, quando abbiamo fatto il corso di sopravvivenza su un ambiente di montagna con la neve, sia questa volta che lo abbiamo fatto in mare. Poi ovviamente noi le approcciamo con la voglia di divertirci, ma anche col desiderio di imparare qualcosa di nuovo, ascoltando gli istruttori in questo tipo di ambiente al quale non siamo abituati. Quindi forse i momenti più sfidanti sono stati quelli delle lezioni frontali, quando abbiamo passato tutta la giornata in classe dalla mattina alle 18:00.
(Andrea Patassa). Concordo, la parte di sopravvivenza sicuramente è attiva, quindi è divertente e non direi che ci sono stati momenti veramente difficili, perché comunque veniamo preparati abbondantemente prima che l'attività venga fatta. Non veniamo lanciati in mezzo al mare o lasciati sulle montagne innevate senza preparazione, ma c'è tutta una fase per affrontare la situazione nel migliore dei modi, prima di approccio teorico poi pratico step by step.
Sotto il profilo della motivazione come vi approcciate a questa esperienza? Come gestite lo stress?
(Andrea Patassa). La motivazione, secondo me, è molto facile da trovare, perché già solo entrare la mattina al Centro Astronauti Europeo e trovarsi circondati dallo spazio, dalla storia dell'astronautica europea, anche per il lunedì mattina più difficile la si trova facilmente. Per quanto riguarda lo stress, in realtà tutto il corso è costruito in maniera eccellente; anche secondo me come diceva Anthea il grosso sono le lezioni frontali, quelle magari su materie che sono lontane dal nostro background, perché chiaramente ognuno ha il suo background nel gruppo degli astronauti. Ci sono materie che per qualcuno sono più semplici perché fa quello tutti i giorni, per altri invece è un po' più sfidante e un po' più impegnativo stare al passo con le lezioni.
(Anthea Comellini). La chiave, anche parlandone con i colleghi, secondo me è riuscire a capire anche quanto siamo fortunati a trovarci qui a fare questo tipo di percorso. Quindi anche spostare il focus non più esclusivamente sull'obiettivo, che è quello della missione e che rimane comunque un obiettivo, ma cercare veramente di godersi il viaggio – quello che un giorno magari ci porterà nello spazio – ed essere in grado di assorbire tutto quello che è effettivamente possibile da questo tipo di lezioni, interazioni. Anche solo prendendo un caffè con gli istruttori e cercare veramente di approfittare positivamente di questo momento. Quindi lo stress, personalmente, non è una sensazione che mi ha accompagnato in questi mesi.

Tra i percorsi di addestramento che avete seguito c'è quello della piscina per simulare le cosiddette passeggiate spaziali. Avete parlato con qualche collega astronauta su quanto questa esperienza sia effettivamente simile a una vera EVA?
(Anthea Comellini). Più che per abituarsi alla sensazione di microgravità, che non si prova nella piscina ma che possiamo simulare con i voli parabolici, il tipo di addestramento che si fa nella Neutral Boyancy Facility – questo è il nome, che è la versione europea, perché alla NASA c'è il Neutral Boyancy Laboratory, quindi NBL ed NBF – è di contesto operativo, anche magari dal punto di vista dell'equipaggiamento che si ha, del tipo di movimenti che si possono fare. Si cerca di mimare quello che poi è il contesto durante un'attività extraveicolare. Quindi, bisogna anche cercare in qualche modo di comportarsi nella stessa maniera in cui ci si potrebbe comportare nello spazio. Ad esempio, noi sappiamo che in acqua possiamo muoverci con la resistenza dell'acqua, ma questa cosa non la dobbiamo sfruttare quando stiamo facendo un tipo di addestramento nella piscina perché nello spazio non si può fare, quindi ad esempio dobbiamo usare le maniglie che ci sono all'esterno dei moduli. Noi non siamo ancora arrivati a questo livello di simulazione, però stiamo facendo tutte le attività introduttive che ci permetteranno nella prossima sessione di fare il primo step.
(Andrea Patassa). Sì, l'addestramento subacqueo come diceva Anthea è un modo per provare a simulare una condizione che sulla Terra non possiamo replicare se non magari con i voli parabolici, ma ogni parabola di questi voli sono 22 secondi, mentre in piscina possiamo sfruttare il galleggiamento per provare le procedure, tutti i movimenti che si fanno soprattutto all'esterno della Stazione Spaziale Internazionale. Una sessione può durare anche 6 ore. Si sfrutta il galleggiamento per provare a replicare una condizione altrimenti non replicabile in nessuno modo sulla Terra, quindi questo è ovviamente uno strumento fondamentale per cercare di approcciare una un'attività difficile e anche rischiosa come quella di una EVA col migliore e il maggiore addestramento possibile.
(Anthea Comellini). Una delle cose che è possibile replicare in una piscina è il fatto di muoversi in tre dimensioni, mentre noi, muovendoci sulla superficie, abbiamo davanti, dietro, destra e sinistra, invece, nella piscina c'è anche sopra e sotto, che è la stessa cosa che si ha nello spazio. Poi più si va avanti, più si cerca di simulare anche quello che è l'equipaggiamento, quindi magari avere il casco con il campo di vista ridotto, con la luce che proviene solo dalla lampadina che si trova sul lato della tuta. Poco a poco si introducono sempre più elementi che poi portano alle simulazioni finali che si fanno alla NASA, addirittura con un modello uno a uno della Stazione Spaziale Internazionale.
C'è qualche competenza che avete acquisito durante questi primi due moduli che non vi aspettavate di apprendere?
(Andrea Patassa). Sì, ci sono dei corsi magari lontani dal nostro background che ci hanno dato delle competenze che personalmente a me sono piaciute molto e che non mi aspettavo di ottenere. Ad esempio abbiamo fatto un corso di fotografia, perché ovviamente, quando si va nello spazio, quando si va in orbita, poter scattare belle fotografie da mandare sulla Terra ha un valore sia divulgativo ma anche scientifico in alcuni casi, quindi è importante avere un'idea di come si maneggia una macchina fotografica. Anche perché c'è stato spiegato che sulla Stazione Spaziale Internazionale è particolarmente difficile fare fotografie; ci sono riflessi ovunque, un'illuminazione molto forte dentro e molto scarsa fuori, vetri. È stato un bel corso, qualcosa che mi porterò dietro anche per un weekend fuori o in vacanza, quindi l'ho apprezzato molto.
(Anthea Comellini). Io ho apprezzato tantissimo il corso di fisiologia spaziale e poi anche di medicina, diciamo, applicata, quindi abbiamo imparato a suturare su un pollo e poi abbiamo imparato a fare la cannulazione su un braccio finto. Adesso ogni volta che vedo un braccio con le vene sto lì a pensare dove sia il punto migliore per infilare un ago nel caso ci fosse necessità di una flebo, quindi è stato un tipo di insegnamento pratico che mi è molto piaciuto, anche perché appunto se poi un giorno dovessimo andare nello spazio, è molto importante che tutti i membri dell'equipaggio siano in grado di agire nel caso ci fosse un bisogno medico.

C'è stato un momento memorabile o comunque divertente che vi è rimasto impresso durante questa esperienza?
(Andrea Patassa). Stando insieme tanto tempo dei piccoli momenti di ilarità ci sono sempre. Ad esempio un giorno dovevamo fare delle foto per il sito dell'ESA e si cercava uno scatto un po' serio, che rimanda al contesto spaziale, ma Anthea si è messa dietro la fotografa e ha cercato in tutti i modi di farmi ridere, con risultati eccellenti, devo dire.
(Anthea Comellini). Eravamo tre ragazze fra l'altro, secondo me è stata una delle prime volte in vita sua che in un contesto lavorativo era in minoranza. Cercavamo di fare di tutto per farlo ridere.
(Andrea Patassa). Confermo, ripeto, con eccellenti risultati. Ci abbiamo messo penso 20 minuti per scattare tre foto.
(Anthea Comellini). Però è stato proprio un bel momento, anche per il team che scattava le fotografie. Ogni tanto ci vuole portare un po' di leggerezza. Io invece sono stata ‘vittima' di un momento divertente durante questi survival. Eravamo in queste dry suit – delle mute che si indossano con i propri vestiti sotto – che fanno sì che il corpo non si bagni, però limitano in qualche modo i movimenti. Ad esempio con la mano sei in una sorta di manopola, quindi non hai la possibilità di usare le dita separatamente. Anche fare delle cose banali diventa più complicato. Io avevo il compito di lanciare un razzo segnalatore dalla scialuppa che già era un pochino instabile ed era la prima volta che facevo questa cosa, ma non mi aspettavo che fosse così complicata. Il razzo praticamente ha due estremità, da un lato esce il il razzo stesso, dall'altro invece si svita una rotella e ne esce una sorta di catenella che va tirata. Io inizio e mi accorgo che questa cosa è particolarmente resistente, quindi penso di averci messo due minuti per tirare questo razzo e avevamo un'orda di giornalisti che ci filmava e fotografava. È stato un momento abbastanza simpatico.
Arriviamo alle missioni nello spazio. Siete la prossima generazione di astronauti e tutti noi ci auguriamo di vedervi al più presto in orbita. Come ci avete detto nella precedente intervista, è un momento significativo per l'esplorazione spaziale. Avete più o meno un'idea temporale su quando potrebbe arrivare la chiamata per la prima missione?
(Andrea Patassa). Difficile indicare una fase temporale perché comunque è un momento di grande fermento, di grande cambiamento. C'è Artemis verso la Luna, c'è la Stazione Spaziale Internazionale che a breve potrebbe essere deorbitata, ma ci sono anche nuove stazioni che verranno messe in orbita in un prossimo futuro. Quindi dare un orizzonte o una destinazione in questo momento è più difficile che in passato. Sicuramente c'è fermento, c'è anche ambizione da parte dell'Europa, della Commissione Europea, ma anche dell'Italia, di far volare i propri astronauti. Quindi le possibilità ci sono, ci saranno ed entrambi siamo sicuramente fiduciosi che ci sarà questa opportunità, speriamo il prima possibile.
(Anthea Comellini). C'è questo fermento ma al contempo anche un po' una situazione incerta, anche visto il contesto geopolitico. Il corpo astronautico europeo è di fronte a questo tipo di incertezza anche perché noi, in quanto europei, ancora non abbiamo la possibilità autonoma e indipendente di inviare gli astronauti in orbita. Quindi questo ci fa riflettere anche sul fatto che magari sia arrivato il momento di fare questo gradino in più, cercare di sviluppare questo tipo di non dipendenza, che poi non va a escludere la cooperazione internazionale, che deve rimanere la chiave con la quale si esplora lo spazio. Alla fine, come anche nelle relazioni interpersonali, si ha una relazione molto più solida se le due parti sono delle parti uguali, quindi dobbiamo cercare di spingere il nostro livello di ambizione un po' più in alto.
Guardando un po' più in là, diciamo Marte, si parla sempre di questi famosi 15 anni per arrivarci, ma poi si rimanda sempre. Escono tanti studi che mostrano limiti non solo tecnologici, ma anche fisiologici. Recentemente è stato determinato che si tornerebbe con la necessità di una dialisi o peggio, dal Pianeta Rosso. Poi c'è il problema dell'esposizione alle radiazioni. Cosa ne pensate? Ci arriveremo davvero?
(Anthea Comellini). Secondo me ad arrivarci ci arriveremo sicuramente. È anche un nostro compito cercare di arrivarci un giorno perché significa che stiamo facendo avanzare la scienza e la tecnologia sempre più in avanti, questo è sempre un bene quando lo si fa in maniera etica e responsabile. I limiti ci sono e come dice non sono esclusivamente tecnologici. C'è l'aspetto tecnologico che è lampante, ossia io arrivo su Marte e su Marte c'è 2/5 della gravità terrestre, quindi ho comunque bisogno di una sorta di razzo che mi rilanci in orbita per tornare, e già questo tipo di tecnologia per ora non l'abbiamo. Però il grande fattore limitante, come diceva, è tutto quello che riguarda la salute degli astronauti che parteciperanno a questo tipo di viaggio, quindi l'esposizione alle radiazioni. In questo momento si stima che un viaggio andata e ritorno da Marte comporterebbe per chi vi partecipa un 50% di probabilità di sviluppare una forma di cancro, quindi stiamo veramente parlando di una sorta di condanna. E ci sono anche tutti gli altri problemi, ad esempio la dialisi, che immagino sia legato al fatto che in assenza di gravità ci sia una riduzione della densità ossea e quindi il calcio viene espulso attraverso i reni. Quindi questi problemi ci sono e per ora una soluzione non l'abbiamo.
(Andrea Patassa). Pensiamo anche al fatto che gli astronauti si troveranno realmente molto più da soli lì di quanto sono adesso nello spazio. Perché adesso per qualsiasi problema c'è un grosso supporto da terra. Gli astronauti devono assolutamente conoscere tutto perché c'è un team a terra che fa parte dell'equipaggio. E su Marte, in funzione anche della posizione dei due pianeti, possono servire anche 20 minuti per la comunicazione, per raggiungere da Terra a Marte. Significa che quando qualcuno su Marte dice “Houston abbiamo un problema”, questa comunicazione è arrivata dopo 20 minuti. E così per ogni domanda e risposta, quindi ovviamente non si può più fare affidamento sul ground crew, quindi sulla sulla parte di terra. Questo comporta difficoltà ovviamente grandissime per risolvere problematiche e comporta anche una un fattore psicologico che spesso viene sottovalutato. Pensiamo anche alle tecnologie, ma la parte psicologica è tutta da scoprire perché un conto è trovarsi adesso sulla Stazione Spaziale Internazionale, da dove si vede la Terra tutti i giorni e tutto il giorno è lì vicina, si riconosce. Su Marte la Terra diventa una delle tante stelle del cielo e l'effetto psicologico è da scoprire, perché non sappiamo ancora quale sia.
(Anthea Comellini). Un'altra cosa alla quale non pensiamo spesso è l'immagine del ritorno degli astronauti che passano sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale e quando escono hanno un team di persone che li sostengono, perché durante questi sei mesi c'è un decondizionamento del corpo perché viene a meno la forza di gravità, quindi i muscoli sono stimolati in maniera ridotta. Ci sono delle attività di contromisura ed è per questa ragione che gli astronauti effettuano sport sulla Stazione Spaziale Internazionale, ma ciò nonostante quando rientrano sulla Terra fanno fatica a camminare. Se pensiamo a una missione verso Marte ci sono sei mesi di viaggio e poi quando questi astronauti devono essere in grado di stabilire una base, di trasportare dei carichi. Quindi dobbiamo veramente capire come mantenere in salute fisica e psicologica un equipaggio che parteciperà a questo tipo di missione.
Per il fattore psicologico ci sono degli studi in corso, ad esempio, dell'Agenzia Spaziale Tedesca, il DLR a Colonia, che è praticamente l'edificio a fianco del centro di addestramento degli astronauti. Anche l'Agenzia Spaziale Italiana in Slovenia effettua questi studi che possono essere di bed rest, quindi con delle persone che rimangono allettate, con il letto leggermente inclinato in modo tale che il sangue affluisca di più nella testa per vedere qual è l'effetto, perché paragonabile alla microgravità. Altri tipi di studi sono quelli di isolamento, quindi replicano proprio la durata di un viaggio verso Marte magari anche simulando questi ritardi nelle comunicazioni, proprio per vedere cosa succede a queste persone. Perché può essere che anche a livello psicologico ci siano delle reazioni che noi ancora dobbiamo immaginare.
(Andrea Patassa). Le risposte ancora non ci sono, ma comunque si sta lavorando in quella direzione. Anche tutto il programma di ritorno stabile verso la Luna è un modo per imparare, perché comunque andare sulla Luna è molto più simile che andare verso Marte rispetto al rimanere in orbita terrestre. È un modo per imparare e sviluppare quelle tecnologie che serviranno poi in futuro. Non in un paio d'anni come come viene detto, ma in futuro sì.
La missione in orbita lunare, Artemis 2, dovrebbe essere lanciata l'anno prossimo, mentre per l'anno successivo si parla di allunaggio, anche se pare un po' troppo ottimistico. Quando potremmo avere una base lunare, dove potreste fare le vostre future missioni?
(Andrea Patassa). È difficilissimo fare una previsione perché in questo momento il mezzo per l'allunaggio, la parte fisica, non c'è ancora. È da capire quando sarà pronta. Si sta lavorando e io penso che negli anni '30 la base sulla superficie lunare sarà una realtà. Adesso se sia l'inizio, la metà o la fine degli anni '30 dipende da tante variabili: situazione geopolitica, fondi, priorità, sviluppo tecnologico, però sarà una realtà, secondo me.
(Anthea Comellini). I progetti ci sono, ad esempio anche l'Agenzia Spaziale Italiana con Thales Alenia Space stanno progettando questo modulo chiamato Multi-Purpose Habitat (MPH) che ogni tanto lo definiscono proprio camper lunare, che dovrebbe essere il primo modulo abitativo di superficie per gli astronauti. Quindi l'intenzione c'è. Per questo ci sono anche le tecnologie, però bisogna implementare il progetto e questo richiede anche un certo tempo perché si devono allineare anche cose a livello politico e di budget, non solo a livello tecnologico.
Grazie. Quando inizierà il terzo e ultimo modulo di questo primo corso di addestramento?
(Andrea Patassa). Ad aprile dovremmo essere lì di nuovo. Le date sono da definire, però in teoria questo è il il periodo che ci aspettiamo: aprile-maggio.
E sarà di nuovo insieme come il secondo modulo o separati?
(Anthea Comellini). Sarà assieme. Avremo un primo periodo dove ci sarà metà gruppo, poi un periodo dove saremo tutti assieme e un altro periodo ancora dove ci sarà l'altra metà del gruppo. Perché non avevamo tutti la disponibilità negli stessi due mesi, però abbiamo avuto proprio l'intenzione di fare la maggior parte del tempo possibile tutti assieme. Il secondo modulo è stato più bello e più coinvolgente rispetto al primo.
E al termine di questi 6 mesi ci sarà una specie di prova finale?
(Anthea Comellini). Noi stiamo facendo quello che si chiama Astronaut Reserve Training che è un sottoinsieme, ma alla fine è molto comparabile a quello che è l'Astronaut Basic Training e non è previsto un esame né alla fine del nostro training né alla fine del basic training. Quando poi invece si prepara una missione, ci sono determinati moduli che richiedono una certificazione delle competenze, una sorta di esamino finale anche per una questione di sicurezza. Devi essere sicuro che i messaggi fondamentali che riguardano la sicurezza dell'astronauta in orbita sono stati assimilati e quindi è anche bene che ci siano questi esami.
Quindi finito questo percorso voi sarete pronti per essere chiamati a partecipare a un'eventuale missione
(Anthea Comellini). Per essere assegnati a una missione, sì.
E come ha influenzato il vostro lavoro quotidiano e la vostra vita relazionale questo percorso che state compiendo?
(Andrea Patassa). Sicuramente è motivante. Aggiunge complessità perché comunque essendo nel corpo di Riserva continuiamo a mantenere la nostra professione con la quale siamo arrivati, nel mio caso è quello di pilota sperimentatore per l'Aeronautica, quindi sostanzialmente dobbiamo fare due lavori, che sono entrambi super stimolanti. Io adoro fare entrambi, però aggiunge ovviamente una sfida. A parte questo, in realtà e per fortuna, nella mia cerchia di amici e di colleghi ovviamente c'è stata sorpresa, è stato fighissimo all'inizio, ma poco dopo tutto è tornato alla normalità, perché alla fine poi ci si abitua, quindi grossi stravolgimenti nella vita personale e nella vita di tutti giorni non ci sono stati.
(Anthea Comellini). Devo dire che anche per me non ci sono sono stati particolari stravolgimenti. Ogni tanto però ho l'impressione che la notte non sia sufficiente per rielaborare tutte le cose che sono successe nella giornata, di essere quindi un pochino bombardata di input e stimoli e di non avere il tempo necessario per assimilare tutto quello che sta succedendo. Quindi diciamo che è una vita un po' di corsa. Però alla fine penso che siamo tutte persone che amano correre metaforicamente, magari ti lamenti perché stai correndo troppo, però se fosse il contrario ti lamenteresti perché è troppo calmo. È un po' quello che ci siamo costruiti e cercati.
(Andrea Patassa). Stiamo entrambi seguendo due sogni, sia il sogno che avevamo prima, legato alla nostra professione di background, più questo dell'astronauta, quindi è più facile affrontare una situazione del genere.
(Anthea Comellini). Sarebbe stato più difficile, penso, guardare delle persone addestrarsi e non essere nel team, piuttosto che essere nel team.