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Il referendum che non c’è (e forse non ci sarà)

Continua la mobilitazione sui social network dell’Unione Popolare e dei comitati “spontanei” per raccogliere le 500mila firme necessarie ad indire un referendum per il taglio dello “stipendio dei parlamentari”. Nel silenzio pressocché totale.
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Nelle ultime settimane sui social network è cresciuta in maniera esponenziale la campagna di mobilitazione per firmare il referendum "contro gli stipendi d'oro dei parlamentari". Si tratta della proposta elaborata dall'Unione Popolare, che intende abrogare la "disposizione di cui all’ 2 della legge 1265, n. 1261", in modo da abolire la “diaria a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma”. Come si legge sul sito ufficiale si tratterebbe di una abolizione che non presenta rischi di illegittimità costituzionale, dal momento che: "Resta comunque ferma la corresponsione dell’indennità disciplinata dall’Art 1 della predetta legge. La scelta di non proporre l'abrogazione dell'art. 1 della legge nasce dall"esigenza di non incorrere nel rischio  incostituzionalità del referendum. Va infatti rammentato che l' art.96 della costituzione recita : "i membri del Parlamento ricevono un'indennità stabilita dalla legge". Ne deriva che l'abrogazione della norma che attua il dettato Costituzionale ( appunto L'art. uno della legge 1265) lascerebbe un vuoto normativo in una materia coperta da disciplina costituzionale".

Il comitato promotore ha inoltre fissato nel 27 luglio la data ultima entro la quale i Comuni dovranno far pervenire i moduli contenenti le firme dei cittadini, nella speranza di poter raggiungere le 500mila segnature necessarie. In tal senso, le ultime stime parlavano di oltre 250mila firme ed una recente nota del segretario parlava di una "straordinaria mobilitazione" che sta dimostrando nettamente "la grande fermezza e consapevolezza del popolo italiano, non più disposto ad accettare sacrifici economici immani".

Ovviamente il leit motiv della campagna è quello della polemica anticasta, con l'ipotesi di risparmiare circa 45 milioni all'anno dalla soppressione della diaria (che ricordiamolo non c'entra con l'indennità base di cui godono i parlamentari e che in parte è già stata oggetto di una revisione al ribasso). Rivendicazioni che, a dire del comitato promotore, sono state completamente ignorate da giornali e televisioni, ma che invece hanno trovato risorse incredibili nella mobilitazione spontanea sui social network. Certo è che finora non è arrivata nessuna adesione eccellente, nonostante gli appelli ai vari Grillo, Di Pietro e Vendola. Tuttavia è ancora possibile sottoscrivere il modulo in uno degli 8mila comuni italiani, con dati più certi che si avranno solo a metà agosto.

Il punto è che questo referendum è "particolare" per una serie di ragioni. In primo luogo andrebbe sottolineato che una riduzione dei compensi ai parlamentari è già "realtà" (modifiche all'indennità stavolta), vergata nero su bianco da modifiche successive al decreto legge del luglio scorso. In questo senso la strada del referendum, ove basterebbe una legge di 2 righe, appare controversa e non del tutto giustificata (per quanto pienamente legittima dal profilo costituzionale, si intenda). Anche considerando che una consultazione popolare ha un costo non indifferente, che cancellerebbe abbondantemente il "risparmio" ottenuto dall'abolizione della diaria. Certo, si potrebbe obiettare che si tratta di un segnale, di un messaggio del popolo alla classe "dei privilegiati". Il punto è che non sembra davvero una buona idea svilire in tal modo l'istituto del referendum, legandolo ad una questione di buonsenso certo, ma francamente di poco spessore. Lo ripetiamo, basterebbe una leggina e i vari comitati (ce ne sono diversi che propongono anche differenti forme di mobilitazione) potrebbero benissimo "unire gli sforzi" e sostenere con forza una legge di iniziativa popolare, che ha un meccanismo diverso, non vincolante, ma che in questo caso difficilmente potrebbe essere ignorata dalla politica. Il tutto senza neanche scendere nel merito della questione e cioè sull'equità o meno del compenso che percepiscono i nostri rappresentanti (sui privilegi invece siamo praticamente tutti d'accordo…).

C'è poi un problema legato ai tempi, che non possiamo non considerare. Infatti, nel 2013 si voterà per le elezioni politiche e la legge non permette l'indizione di una consultazione referendaria nell'anno precedente, quindi anche un eventuale esame delle firme da parte della Cassazione (ove mai si raggiungesse il numero di 500mila segnature) dovrebbe partire nel 2013. Successivamente partirà la fase di "riscontro della costituzionalità" del quesito, un processo che potrebbe essere lungo e che è precondizione alla fissazione della data. Insomma, tempi lunghi (2014 forse, ma anche primavera 2015), mentre nel frattempo il Parlamento avrebbe modo di legiferare e "tecnicamente" anche di annullare la consultazione con una modifica dell'articolo in questione. E speriamo che per quella data a rappresentarci sia una classe politica più matura e meno "arrogante", capace di sciogliere con criterio anche questo nodo.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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