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Sudafrica, la storia del paziente positivo al Coronavirus che ha infettato un intero ospedale

I ricercatori dell’Università di KwaZulu-Natal, in Sudafrica, sono riusciti a dimostrare come un singolo infetto possa avviare una catena del contagio che interessa decine di persone che sono state con lui a stretto contatto. E’ quanto è successo all’ospedale San Agustín a Durban dove un uomo, arrivato dall’Europa e ricoverato il 9 marzo con sintomi da Covid-19, ha dato il via alla trasmissione del virus che è stato riscontrato in 119 persone, tra cui 80 operatori sanitari, all’interno della stessa struttura.
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A cura di Ida Artiaco
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Il 9 marzo scorso un uomo è arrivato all'ospedale San Agustín a Durban, città costiera della provincia del KwaZulu-Natal a est del Sudafrica, lamentando tosse e mal di testa. Viene ricoverato e sistemato per qualche giorno accanto ad una donna che aveva appena avuto un infarto. Lui tornava dall'Europa, lei è ospite di una casa di cura. Solo due giorni dopo l'Organizzazione mondiale della Sanità avrebbe dichiarato la pandemia da Coronavirus. Meno di un mese dopo, il virus in questione sarebbe stato rilevato in 119 persone all'interno di quell'ospedale, tra cui 80 operatori sanitari, e ucciso tre di loro, tra cui la signora che aveva avuto l'infarto. E' questa la storia che dimostra come un singolo paziente sia riuscito a trasmettere il contagio ad un intera struttura ospedaliera. La ricostruzione di quanto successo è stata effettuata da un gruppo di ricercatori dell’Università di KwaZulu-Natal guidati dal professor Salim Abdool.

Lo studio in questione, reso possibile dal fatto che l'epidemia qui era ancora allo stadio iniziale, dimostra come un singolo infetto possa avviare una catena del contagio che interessa decine di persone che sono state con lui a stretto contatto. L'uomo da cui sarebbe partita la trasmissione, che era stato in Europa quando l'epidemia già mieteva le prime vittime, è arrivato in ospedale il 9 marzo con sintomi da Covid-19. Nella struttura non ci è rimasto molto, ma quel lasso di tempo è stato sufficiente per infettare la persona che era ricoverata quasi accanto a lui. Essendo un caso sospetto di Coronavirus, il primo paziente era stato mantenuto in un ambiente separato rispetto al resto del pronto soccorso, ma comunque in comunicazione con una sala utilizzata per le attività di rianimazione, dove era stata trattata la seconda paziente con infarto. I due, inoltre, erano stati inoltre visitati dallo stesso medico, di turno nel reparto di emergenza.

Solo quattro giorni dopo, il 13 marzo, la donna ha cominciato a manifestare febbre e tosse. Ancora, il 17 lo stesso destino è toccato ad un infermiere. I ricercatori, ricostruendo i vari movimenti e contatti verificatisi in ospedale, hanno verificato come la seconda abbia infettato a sua volta almeno altre quattro persone ricoverate nel nosocomio, tra cui la sua vicina di letto, una 50enne con gravi problemi respiratori. Da qui, il virus si sarebbe diffuso in cinque diversi reparti dell’ospedale, compresi quelli di neurologia, chirurgia e di terapia intensiva. Non solo. Buona parte dei contagi sarebbero stati veicolati anche dal personale sanitario, e in parte in via indiretta, attraverso l'utilizzo delle stesse strumentazioni per visitare gli ammalati o attraverso le mani. Nessun riscontro, invece, per eventuali contagi per via aerea, tramite il famoso droplet, le goccioline di saliva che restano in sospensione nell'aria. Gli studiosi hanno concluso che una diversa gestione di questi pazienti, e una minore sottovalutazione del rischio iniziale, avrebbe potuto contenere, e di molto, l'infezione. Per questo, consigliano di adottare alcune precauzioni come la creazione di aree separate negli ospedali sulla base del rischio, organizzando turni di lavoro per il personale in modo da impiegarlo in una sola area, senza continui passaggi nelle altre.

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