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Pietro torna a casa dopo arresto su Flotilla: “Trattamento disumano, eravamo in ginocchio e con fucili puntati”

“I militari venivano in tenuta antisommossa con i fucili puntati contro le nostre teste, minacciandoci di lasciare i cani liberi in cella”, il racconto di Pietro, tornato in Italia dopo quattro giorni di detenzione in Israele a seguito dell’abbordaggio da parte dell’Idf a bordo della Global Sumud Flotilla.
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“Sono Pietro Queirolo Palmas, un partecipante della Flotilla. Sono rientrato in Italia lunedì sera, ho riabbracciato i miei cari, ho visto i miei amici e sono contento di essere tornato”. Racconta così a Fanpage.it il ventiduenne genovese, confuso e sollevato, il suo ritorno dopo quattro giorni di detenzione in Israele.

Pietro era a bordo dell’imbarcazione “All In” della Global Sumud Flotilla quando – come ricorda – “alle 7:00 del mattino di venerdì la barca è stata intercettata. Dopo una lunga notte di resistenza, dopo che la Marina Militare israeliana ha provato per ore a bloccarci, molte imbarcazioni hanno resistito e cercato di continuare verso Gaza, per sfondare il blocco marittimo illegale”. Quella stessa notte Fanpage.it incontrò la madre di Pietro, confusa e preoccupata, al porto di Genova, dove si trovava per manifestare contro l’abbordaggio e il sequestro degli attivisti della Flotilla – compreso il figlio.

L’intercettazione è stata rapida – continua il giovane che poco prima di gettare il telefono in mare aveva mandato un ultimo messaggio alla madre -. Sono saliti i soldati a bordo, ci hanno domandato se qualcuno fosse nascosto, se ci fossero armi, o dispositivi elettronici. Dopo i controlli molti militari sono scesi, sono rimasti soltanto quattro che hanno preso il controllo dell’imbarcazione e ci hanno portato al porto di Ashdod”.

Durante il tragitto Pietro ricorda il contrasto tra quello che vedeva al di là del male, lungo la costa d’Israele e quella, invece, di Gaza: “Da una parte grattacieli, porti, gru; dall’altra invece distruzione. Sentivamo i bombardamenti su Gaza”.

“Arrivati al porto è iniziata l’azione militare vera e propria e il momento più umiliante – continua -. I militari hanno utilizzato molta violenza e ci hanno messo tutti in ginocchio e nel frattempo il ministro Ben Gvir passava a dichiarare che eravamo dei terroristi e a fare la loro propaganda. Appena aprivamo bocca i militari ci tiravano scappellotti, non avevamo la possibilità di dire la nostra e tutto il trattamento da lì in poi, all'interno del porto, è stato disumano. Durante la perquisizione siamo stati spogliati, ci hanno ritirato libri, cuffiette, braccialetti della Palestina. Ad ogni persona veniva assegnato un poliziotto che controllava ogni passaggio fino all’incontro con il giudice. E non avevamo il diritto di parola tra di noi, per cui se provavamo a comunicare venivamo rimproverati. Spesso non ci fornivano acqua, non ci facevano andare in bagno, quello che vedevi nelle loro facce era odio nei nostri confronti, non venivamo considerati come esseri umani”.

Nella procedura giudiziaria agli attivisti tenuti prigionieri è stato chiesto di firmare tre fogli: con il primo – racconta Pietro – si dichiarava una colpevolezza che non corrispondeva alla realtà (essere entrati illegalmente in Israele, ndr), il secondo era per il rimpatrio volontario; del terzo – ha detto Pietro – “non ricordo i termini precisi”.

Dopodiché il viaggio in pullman fino al carcere nel Negev: "Abbiamo consegnato tutti i nostri beni, ci hanno messo dei braccialetti identificativi e ci hanno caricato su dei pullman”, racconta il giovane. “Io mi sono ritrovato in una cella con il mio comandante, è stato un momento bello perché avevo paura di perderlo e di non sapere più che fine facesse, invece l'ho ritrovato lì dentro. Gli israeliani mettevano l'aria condizionata molto forte e poi la spegnevano, per cui si aveva questa sensazione di caldo-freddo di continuo. In più avevamo mani legate da fascette elettriche molto strette”.

Arrivato nella cella dove è stato rinchiuso con altri 15 italiani, Pietro racconta di “essersi fatto sentire” dai prigionieri palestinesi che stavano nelle altre celle: “Penso che sia stato in qualche modo un momento di solidarietà sia tra di noi e con i prigionieri palestinesi. I momenti più difficili sono stati la sera e la mattina perché i militari venivano in tenuta antisommossa con i fucili puntati contro le nostre teste, minacciandoci di lasciare i cani liberi in cella. Spesso durante la notte ci svegliavano per cambiarci di cella così da privarci del sonno. Questo sappiamo che è il minimo trattamento che i prigionieri palestinesi ricevono", continua aggiungendo: “Sono stati fatti vedere dei video dalle televisioni che proiettavano i video del 7 ottobre. Un nostro compagno di cella ha chiesto di mostrateci i video di quello che fanno a Gaza e per questo è stato trasportato è stato messo in isolamento con le manette per 8 ore. Anche lì abbiamo avuto molta paura non vedendolo tornare per tutto quel tempo”.

Pietro è rientrato in Italia insieme ad altri connazionali lunedì notte. Ad accoglierlo all'aeroporto di Roma Fiumicino c’erano anche la mamma Sara, il papà e la sorella.

“Questa non deve essere la fine ma l'inizio. Quello che ha fatto la Flotilla è stato smuovere le coscienze e non solo: lo sciopero generale, gli studenti in piazza, 1 milione di persone il 4 ottobre a Roma. La guerra – conclude un attimo prima di scappare dall’avvocata – si può fermare da qui con le manifestazioni, bloccando i porti, facendo pressioni sul governo italiano e sulle aziende che finanziano il genocidio in Palestina".

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