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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Perché non è così scontata la fine della guerra tra Iran e Israele e chi ci guadagnerebbe dal cessate il fuoco

Se il conflitto dovesse davvero terminare, questa guerra dimostrerebbe una volta di più i solidi legami tra Israele e Stati Uniti. Quale sarà il futuro del programma nucleare di Teheran dopo i raid è la grande incognita di questo fragile cessate il fuoco e del futuro del Medioriente.
A cura di Giuseppe Acconcia
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Donald Trump ha annunciato l’entrata in vigore del cessate il fuoco, con la mediazione del Qatar, tra Israele e Iran a partire da questa mattina. Se Tel Aviv e Teheran rispetteranno una tregua che sembra già vacillare, la guerra tra Israele e Iran, iniziata con i raid israeliani del 13 giugno scorso, volgerebbe alla fine dopo 12 giorni di combattimenti, centinaia di morti iraniani e decine di vittime israeliane. Il 22 giugno gli Usa hanno deciso di unirsi al conflitto al fianco di Israele colpendo le centrali nucleari di Fordow, Isfahan e Natanz in Iran in una dimostrazione di forza che ha provocato solo una debole reazione iraniana con i raid contro le basi Usa in Qatar e Iraq, ampiamente preannunciate sia a Washington sia a Doha, dello scorso lunedì.

Tuttavia, nella notte del 24 giugno sono proseguiti i raid reciproci. Teheran ha colpito Beer Sheva nel Sud di Israele causando cinque vittime, mentre Idf ha ripetutamente attaccato la capitale iraniana. A questo punto sarà necessario verificare se entrambe le parti rispetteranno il cessate il fuoco, come si evince dalle dichiarazioni ufficiali, determinando davvero la fine delle ostilità.

Israele esce più forte dal conflitto

La guerra tra Israele e Iran non ha mai avuto obiettivi chiari. Quindi è difficile dire chi abbia vinto e chi abbia perso. Sicuramente Tel Aviv ora è più forte rispetto al 7 ottobre 2023 dopo aver eliminato la leadership di Hamas, di Hezbollah, con la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria e ora dopo la guerra in Iran. Eppure, non si tratta di una vittoria completa. Le autorità israeliane in questi giorni si aspettavano un sollevamento popolare in Iran contro la Repubblica islamica che non c’è mai stato. Anzi sono state organizzate almeno due grandi manifestazioni di sostegno al regime, all’ultima delle quali ha partecipato anche il presidente riformista, Massoud Pezeshkian, che hanno dimostrato ancora una volta fino a che punto la società iraniana sia polarizzata tra chi appoggia il regime e chi lo critica.

Non solo, l’esercito israeliano è andato oltre cercando di avvantaggiarsi del controllo che in pochi giorni ha ottenuto sullo spazio aereo iraniano. Nella giornata di lunedì ha potuto colpire così alcuni simboli del regime degli ayatollah a partire dall’orologio che segnava il countdown per la fine di Israele in piazza Palestina. Non solo, l’Idf ha colpito il famigerato carcere di Evin dove ci sono centinaia di detenuti politici, sostenitori del movimento “Donna, vita, libertà”, innescato nel 2022 dall’uccisione di Mahsa Amini per mano della polizia morale. Nonostante tutto questo, non si sono registrate manifestazioni di dissenso, gli iraniani non sono scesi in strada per chiedere la fine del regime degli ayatollah, come forse si aspettava Netanyahu e lo stesso Trump che dopo i “monumentali” raid Usa, ancora tutti da verificare nella loro efficacia, aveva lanciato il motto Make Iran Great Again (Miga) sul modello Maga.

L’Iran è indebolito dalla guerra

L’Iran sicuramente esce sconfitto da questa guerra. I suoi principali siti nucleari sono stati colpiti duramente. Sarà l’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea), accusata da Teheran di non aver rispettato il suo ruolo indipendente facendo passare il messaggio che l’Iran fosse in procinto di dotarsi di un’arma nucleare, a dover valutare gli effettivi danni arrecati agli impianti di Teheran dai raid israeliani e statunitensi.

È probabile che il programma nucleare iraniano non sia stato “cancellato”, come sostenuto da Trump ma che le autorità iraniane, continuamente in contatto con Washington durante le fasi più delicate del conflitto, abbiano messo in salvo le riserve di uranio arricchito presenti nella centrale di Fordow. Tuttavia, come ci hanno fatto notare vari attivisti iraniani, anche Teheran ha saputo mettere pressione su Israele.

Le immagini senza precedenti che sono arrivate dai quartieri residenziali di Tel Aviv e dal porto di Haifa, così come le notizie dei residenti stranieri che lasciavano il paese spaventati dai continui raid iraniani, non hanno certo aiutato l’immagine di invincibilità che l’esercito israeliano ha voluto costruirsi in questi due anni di genocidio e pulizia etnica a Gaza. Teheran ha saputo giocare poi al momento giusto la carta della, difficile da realizzarsi, chiusura dello Stretto di Hormuz, approvata in via preliminare dal parlamento (Majlis) di Teheran e che avrebbe messo in ginocchio il traffico commerciale di un quinto del petrolio mondiale.

Anche la potenziale chiusura di Bab el-Mandeb, lo stretto che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden e quindi con l'Oceano indiano, avrebbe potuto produrre effetti devastanti per il commercio globale. Non solo, tali iniziative avrebbero di sicuro allertato i paesi del Golfo, dall’Arabia Saudita agli Emirati Arabi Uniti, contrari a un’escalation della guerra, e avrebbero colpito gli interessi economici e commerciali cinesi. Fino a quel momento, sia Mosca sia Pechino hanno solo condannato verbalmente i raid israeliani contro l’Iran ma non hanno mai paventato un loro intervento a sostegno degli ayatollah.

Ma Teheran non arretra sui suoi simboli identitari

Nonostante la debolezza militare e geopolitica iraniana, che avrebbe potuto contare sul solo sostegno degli Houthi in Yemen dopo il ridimensionamento del cosìddetto Asse della Resistenza, con Hamas a Gaza e il movimento sciita libanese Hezbollah, Teheran ha dimostrato che esistono alcune linee rosse invalicabili. Per esempio, è evidente che l’Iran degli ayatollah non rinuncerà mai a un programma nucleare a scopo civile ed è pronto a combattere per difenderlo.

A questo punto sarà importante verificare se si arriverà a un accordo, completamente affossato dai raid israeliani, dopo i cinque round negoziali in Oman e a Roma, sui livelli di arricchimento dell’uranio ammessi per Teheran. Questo è un punto essenziale per capire il futuro delle tensioni tra Israele e Iran perché le autorità iraniane non hanno accettato di firmare un’intesa che prevedesse l’azzeramento dei livelli di arricchimento dell’uranio, come richiesto da Washington, o l’esternalizzazione dell’attività di arricchimento iraniana nei paesi del Golfo.

Quale sarà il futuro del programma nucleare di Teheran dopo i raid congiunti di Israele e Stati Uniti è la grande incognita di questo cessate il fuoco e del futuro del Medioriente. Sicuramente questi 12 giorni di guerra hanno dimostrato che la Repubblica islamica non potrà finire con l’implosione delle sue istituzioni e l’uccisione della guida suprema, Ali Khamenei. Quest’ultimo mantiene un sostegno politico e religioso nella comunità sciita rilevante. Una sua eliminazione fisica determinerebbe un sollevamento popolare, dai risultati incerti, tra le comunità sciite in Medioriente che sia Tel Aviv sia Washington hanno voluto evitare.

“Conosciamo bene l’idea di cambiare i regimi attraverso assassini. Non si ottiene un regime che è a favore di chi interviene ma il caos”, ci ha spiegato lo storico dell’Università della California (Ucla), James Gelvin. “Questo è esattamente quello che è accaduto nel 2003 in Iraq, in Siria, in Libia, in Afghanistan e in altri paesi. Il problema è che quando si fa qualcosa del genere e si cerca di anticipare quello che il popolo del paese nemico farà, non necessariamente gli effetti prodotti saranno favorevoli per l’aggressore”, ha aggiunto il docente.

“Israele aveva la speranza che bastasse liberarsi di Ali Khamenei e che gli iraniani sarebbero scesi per le strade. O che i militari si sarebbero sollevati contro i mullah. Questo sicuramente non accadrà perché ayatollah e pasdaran sono completamente interconnessi in questo regime opaco. Sono reciprocamente integrati e dipendenti”, ha concluso Gelvin.

Donald Trump si è intestato il successo

Anche Donald Trump potrà ora vantarsi di qualcosa, proprio mentre faticano ad arrivare i cessate il fuoco a Gaza e in Ucraina. È stato lui a lanciare i raid contro l’Iran del 22 giugno, facendosi trascinare nella guerra di Tel Aviv. Però Trump ha anche saputo evitare la possibile escalation del conflitto. In altre parole, ha creato il problema per poi dimostrarsi capace di risolverlo. Gli Usa hanno attaccato l’Iran non ascoltando le informazioni dell’Intelligence di Washington che negavano che Teheran stesse procedendo alla costruzione di un ordigno atomico ma si è fidato completamente dei report allarmanti di Israele. Facendo questo Trump ha tradito la sua posizione geopolitica di disimpegno dal Medioriente, cara a parte della sua base, che gli ha permesso di ottenere il suo successo elettorale.

Evidentemente però il presidente Usa non ha voluto rischiare di entrare in una guerra di logoramento contro l’Iran che avrebbe potuto riprodurre gli stessi errori commessi dagli Usa in Iraq. In quel caso, le millantate armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non sono state mai ritrovate. Non solo, l’intero progetto di esportare la democrazia con le bombe di George Bush si è dimostrato completamente fallimentare. Tuttavia, i raid statunitensi contro l’Iran, nonostante nascondano una strategia confusa e incoerente, hanno anche dimostrato che sebbene gli Usa abbiano perso il loro ruolo egemonico in Medioriente, sono ancora l’unica potenza capace di intervenire direttamente nei conflitti regionali perché nessun altro paese, dalla Russia alla Cina, si è dimostrato capace o interessato a sostituirsi a Washington fin qui nella regione. Infine, è evidente che Trump non ha voluto andare fino in fondo arrivando a decapitare il regime degli ayatollah sul modello del colpo di stato Usa che nel 1953 aveva spodestato l’allora premier iraniano, Mohammad Mossadeq, innescando un sentimento identitario e di indipendenza da tutte le grandi potenze regionali a Teheran che è stata una delle cause che ha motivato la rivoluzione iraniana del 1979.

Se il conflitto dovesse davvero terminare, questa guerra dimostrerebbe una volta di più i solidi legami tra Israele e Stati Uniti. Seppure Washington abbia interessi non completamente sovrapponibili con Tel Aviv, è sempre pronta a intervenire militarmente per appoggiare le iniziative israeliane in Medioriente, così come è accaduto con il sostegno di Trump al piano per realizzare la così detta “Riviera del Mediterraneo” a Gaza con la pulizia etnica e il massacro dei palestinesi che continua senza fine.

Questa guerra ha anche confermato l’isolamento iraniano, che non può contare davvero su un appoggio militare di Mosca e Pechino. Questa vulnerabilità iraniana, nei prossimi anni, potrebbe determinare una revisione del veto degli ayatollah a dotarsi di un’arma nucleare e l’uscita di Teheran dal Trattato di non proliferazione che sicuramente determinerebbe nuove tensioni regionali.

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Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
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