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Guerra in Ucraina

Perché neanche i prossimi negoziati di Istanbul porteranno alla fine della guerra tra Russia e Ucraina

Mentre sul campo si continua a combattere, Russia e Ucraina si preparano a nuovi colloqui a Istanbul. Ma le posizioni restano inconciliabili e Mosca potrebbe usare il negoziato solo come strumento tattico, e non invece per fare pace. Il punto con il direttore del CESI Marco Di Liddo.
Intervista a Marco Di Liddo
Direttore del CESI (Centro Studi Internazionali)
A cura di Davide Falcioni
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Mentre sul terreno si assiste a una temporanea e apparente stasi, sembra riaprirsi l’orizzonte diplomatico tra Mosca e Kiev. Lunedì 2 giugno, a Istanbul, potrebbero tenersi nuovi colloqui tra delegazioni russe e ucraine. Un evento che, almeno formalmente, richiama la necessità del dialogo in un conflitto che da oltre tre anni lacera L'Ucraina e che ha causato decine di migliaia di morti civili e la distruzione di gran parte del Paese.

Ma i segnali che arrivano da Putin e Zelensky lasciano poco spazio all’ottimismo. Secondo Marco Di Liddo, direttore del Centro Studi Internazionali (CESI), le condizioni attuali rendono qualsiasi negoziato più un atto di facciata che una reale apertura alla pace. Le posizioni sono infatti inconciliabili e perfino un cessate il fuoco di trenta giorni appare, oggi, una chimera.

Il conflitto, infatti, è tutt’altro che congelato. Nonostante il rallentamento degli attacchi via terra, la Russia intensifica i bombardamenti aerei, mentre riorganizza le truppe in vista di una possibile nuova offensiva estiva. Nel frattempo, il sistema economico russo, lungi dall’essere collassato sotto il peso delle sanzioni occidentali, si è trasformato in una macchina bellica sostenuta da triangolazioni commerciali e forniture parallele. Anche l’Europa, paradossalmente, continua in parte a finanziare Mosca tramite l’acquisto di energia.

Alla vigilia dei colloqui di Istanbul, il fronte diplomatico si presenta dunque carico di ambiguità. Per Di Liddo, la decisione russa di sedere al tavolo negoziale ha un valore più tattico che concreto: un modo per guadagnare tempo, confondere gli alleati dell’Ucraina e sondare la tenuta del fronte occidentale.

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Partiamo dalla situazione sul campo: che cosa sta accadendo in questi giorni e qual è lo stato delle difese ucraine?

C’è una fase di relativa stasi sul terreno, ma è solo apparente. La Russia, dopo settimane di pressione costante, ha rallentato gli attacchi via terra. Attenzione però: questo rallentamento non è un segnale distensivo, ma piuttosto una fase preparatoria. Mosca sta riorganizzando le truppe, facendo rotazione dei soldati e accumulando forze in vista di una nuova offensiva estiva, probabilmente tra giugno e settembre, finché le condizioni meteo consentiranno di operare.

Nel frattempo, i bombardamenti aerei non solo continuano, ma aumentano per intensità. E ogni volta ci ritroviamo a leggere titoli come "il più pesante attacco dall’inizio della guerra". Ma è un paradosso: o la Russia è allo stremo, come si continua a dire su molti media, oppure la narrazione occidentale sul collasso del sistema produttivo russo va completamente rivista.

Cosa intende? 

Noi analizziamo l’economia russa con i parametri dell’economia di pace, ma oggi Mosca è una macchina bellica. Non punta al valore aggiunto o alla crescita del PIL: punta a sostenere lo sforzo di guerra. Dopo tre anni di sanzioni, che si diceva avrebbero piegato il paese, la Russia continua a produrre missili, droni, artiglieria. Ha superato il blocco sulla componentistica rivolgendosi a Iran, Cina e persino alla Corea del Nord. In più, sfrutta triangolazioni commerciali: se l’Europa non vende a Mosca, lo fanno Armenia, Turchia o India. Che comprano dall'Europa…

Quindi le sanzioni introdotte dopo il 24 agosto 2022 sono state un fallimento?

Non sono inutili, ma hanno avuto un impatto molto molto debole. Le sanzioni funzionano quando creano crisi sociali, o quando impediscono fisicamente a un paese di sostenere uno sforzo bellico. Nessuna delle due cose è successa. I russi non si sono mai davvero ribellati, in parte anche a causa della repressione del regime. Gli oligarchi? I pochi che hanno provato a dissentire sono spariti. Quando hanno visto che il primo moriva, il secondo moriva, il terzo idem, gli altri hanno spostato i loro capitali in paradisi fiscali che l'Europa non colpisce. Materialmente, inoltre, Mosca ha ancora energia in abbondanza, acciaio e altre risorse. Non abbastanza chip, come dicono alcuni? Si arrangiano con forniture esterne o vecchia tecnologia che comunque funziona.

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Anche l'Europa sta continuando a finanziare la Russia.

Questo è l'aspetto più paradossale. Pur avendo ridotto le importazioni di gas e petrolio dalla Russia, ne acquistiamo ancora una fetta importante. Quindi noi stessi europei diamo i soldi a Mosca per finanziare la guerra in Ucraina.

Intensificando i suoi attacchi aerei, la Russia sta “testando” anche la capacità dell’Europa di sostenere l’Ucraina?

Sì, è una provocazione tecnica e politica. Sul piano tecnico si testa la resistenza dei sistemi di difesa aerea forniti da Europa e Stati Uniti. I droni e i missili russi cercano di saturarli: l’obiettivo è far consumare rapidamente le scorte e testare la capacità di rimpiazzo. Produciamo abbastanza per stare al passo? E soprattutto: quanto ci costa difendere Kiev rispetto a quanto costa a Mosca attaccare? Politicamente, invece, si mette alla prova la tenuta del fronte occidentale. Fino a quando sarà sostenibile il supporto all'Ucraina? E ha senso fermarsi a un sostegno "difensivo", che serve solo a contenere i danni, senza dare all’Ucraina strumenti per rovesciare la situazione?

Restiamo sul fronte occidentale: cosa potrebbe cambiare se la Germania autorizzasse l’invio dei missili Taurus?

Sarebbe un cambio di passo importante. I Taurus consentirebbero all’Ucraina di colpire in profondità le linee logistiche russe. Kiev, va detto, ha comunque mantenuto una notevole capacità offensiva, anche senza armi come i Taurus. Colpiscono depositi e infrastrutture, anche con droni e missili auto-prodotti. Ma i Taurus sarebbero un vero moltiplicatore di forza, se Berlino decidesse davvero di rompere gli indugi.

Parliamo di negoziati. Lunedì 2 giugno potrebbero tenersi nuovi colloqui a Istanbul…

Al momento non ci sono spiragli concreti. Le posizioni restano inconciliabili. Ufficialmente, sul lungo periodo Kiev punta al ritorno ai confini del 2014 e all’ingresso in NATO e UE come garanzia di sicurezza futura. Mosca, al contrario, vuole il riconoscimento delle annessioni (Crimea, Kherson, Zaporizhia, Donetsk e Lugansk), la neutralità dell’Ucraina, il disarmo e il controllo sulla leadership politica, ovvero la cosiddetta "denazificazione". Sostanzialmente Mosca intende esautorare l'attuale governo ucraino e poi esercitare una sorta di potere di veto sul prossimo esecutivo. Se non si tratterà di una leadership ritenuta gradita a Mosca, questa verrà bollata come "neonazista", quindi non avrà il via libera per governare il Paese.

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L'Ucraina chiede anche un cessate il fuoco di trenta giorni.

Anche una semplice tregua però è difficile. I russi, per esempio, chiedono che durante eventuali cessate il fuoco non vengano consegnati armamenti all’Ucraina. Una proposta sbilanciata: Mosca continuerebbe a produrre armi e riorganizzarsi, mentre Kiev resterebbe ferma. Per questo anche una tregua breve, al momento, sembra irrealistica.

Visti gli attuali rapporti di forza cos'è che può realisticamente ottenere l'Ucraina in un negoziato con la Russia?

Delle tregue di qualche giorno, al massimo una settimana. Non di più.

Alcuni osservatori parlano di una possibile "soluzione coreana", un congelamento del conflitto. È plausibile?

Guardi, la cosiddetta "soluzione coreana" viene spesso evocata come modello storico, ma è qualcosa di molto distante, sia nel tempo che nelle condizioni geopolitiche. È rimasta congelata perché, in quel contesto, c'era una presenza militare americana costante nella penisola coreana, pronta a intervenire in difesa della Corea del Sud.

Quindi, una situazione che non trova un vero parallelo in Europa?

Esatto. Quella era una dinamica da Guerra Fredda, simile – con tutte le differenze del caso – alla divisione della Germania. Due modelli nati nello stesso periodo e figli di una logica di equilibrio di potenza. Ma in Europa oggi i conflitti "congelati" lasciano aperti molti più interrogativi e non sono sorretti da quegli stessi meccanismi di bilanciamento.

Per fare un parallelo più vicino alla nostra realtà attuale, quale sarebbe, allora, un modello più coerente?

Se proprio vogliamo cercare un parallelo, dobbiamo guardare al Nagorno-Karabakh. Lì abbiamo avuto una situazione formalmente congelata per trent’anni, ma segnata da riaccensioni improvvise e sanguinose. La situazione è esplosa definitivamente quando la Turchia ha sostenuto apertamente l’Azerbaijan e la Russia, distratta dall’Ucraina, ha fatto un passo indietro. Ecco, se dovessi indicare una "soluzione alla coreana" per l’Ucraina, io direi che somiglia piuttosto a una "soluzione alla Nagorno-Karabakh". Con tutte le sue tragiche conseguenze.

Un’ultima domanda: i colloqui di pace di lunedì secondo lei porteranno a qualcosa di concreto?

Non ho grandi aspettative. Non si vedono all’orizzonte segnali positivi. Credo che la Russia abbia convocato questi incontri più per ragioni tattiche che per reale disponibilità al negoziato. Forse sono rimasti spiazzati dalle recenti dichiarazioni di Trump e vogliono offrire un gesto simbolico, un contentino. Ma al momento, dal lato russo, la trattativa è gestita in modo manipolatorio, non costruttivo.

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