Perché con l’arresto del premio Nobel per la pace Narges Mohammadi si aggrava la repressione in Iran

Le forze di sicurezza iraniane hanno arresto ieri la vincitrice de premio Nobel per la pace del 2023, Narges Mohammadi, 53 anni. L’attivista stava partecipando a una cerimonia per ricordare Khosro Alikordi, 46 anni, avvocato per i diritti umani, ritrovato morto nel suo ufficio a Mashhad nel Nord-Est dell’Iran, cinque giorni fa, in circostanze poco chiare.
Ottanta avvocati avevano chiesto con una petizione nei giorni scorsi di fare luce sul caso Alikordi. Mohammadi, ingegnere, già arrestata 13 volte e condannata per varie accuse a un totale di 30 anni di detenzione, in prigione dal 2021 per le sue iniziative contro la pena di morte e il velo (hejab) obbligatorio, era stata rilasciata temporaneamente per motivi di salute nel dicembre 2024. Ha subìto vari interventi al cuore e uno per rimuovere una lesione cancerosa alle ossa. Nonostante questo,
Mohammadi, che ha ottenuto un sostegno internazionale senza precedenti dopo la vittoria del Nobel, ha continuato a protestare negli ultimi mesi di fronte al carcere di Evin per chiedere il rilascio dei prigionieri politici.
Le circostanze dell’arresto
L’attivista per i diritti umani avrebbe subìto violenze durante l’arresto, confermato con un post su X, anche da suo marito, Taghi Rahmani, che vive a Parigi. Secondo Rahmani, insieme a Mohammadi, anche l’attivista che ha raccontato le violenze subìte dalle donne iraniane nelle prigioni di Evin e Busher, Sepideh Gholian, è stata arrestata. Anche il fratello di Narges, Mehdi, presente al momento dell’arresto, ha confermato le circostanze che hanno portato alla detenzione dell’attivista, così come riportato dal Centro dei difensori dei diritti umani, la fondazione per la quale lavora Mohammadi, nata per impulso dell’altra premio Nobel per la pace iraniana, Shirin Ebadi.
Da mesi, gli attivisti iraniani temevano che potesse arrivare il giorno dell’arresto di Narges Mohammadi, uno dei simboli, insieme a Masih Alinejad, del movimento “Donna, vita, libertà”, scoppiato nel settembre 2022 in seguito all’uccisione di Mahsa Amini per mano della polizia morale. Un video della cerimonia mostra Mohammadi parlare alla folla raccoltasi per ricordare Alikordi senza indossare l’hejab.
Prigionieri politici e condanne a morte
L’attivista ha iniziato il suo discorso in memoria dell’avvocato Khosro Alikordi, ricordando Majidreza Rahnarvard, uno degli attivisti condannati a morte ed uccisi nel 2022 in seguito alle proteste di piazza, mentre centinaia sono i prigionieri politici che per mesi hanno pagato con arresti e violenze le mobilitazioni giovanili, delle minoranze e per la difesa dei diritti delle donne che hanno attraversato il paese. “Alikordi era un’importante figura tra i difensori dei diritti umani in Iran”, ha ricordato in una nota il centro per i Diritti umani di New York. “È stato arresto più volte negli ultimi anni e ha subìto in
varie occasioni maltrattamenti e minacce da parte delle forze di sicurezza”, ha aggiunto il centro in una nota.
Il bastone e la carota
Dopo la guerra dei 12 giorni dello scorso giugno tra Israele e Iran, un’ondata di unità nazionale contro le interferenze esterne di Washington e Tel Aviv a Teheran aveva aperto ben presto la strada a nuovi arresti di massa di dissidenti politici. “Stiamo assistendo a una resilienza del regime che sorprende israeliani e statunitensi perché figure chiave del regime sono state assassinate ma in poche ore sono state sostituite. I militari iraniani non hanno mai perso il loro potere di comando e controllo”, ha spiegato Trita Parsi del Quincy Institute.
Eppure, questa volta la strategia delle autorità iraniane è stata quella del bastone e della carota. Da una parte, si sono registrate timide aperture in tema di arresti di donne che non portano l’hejab e di concerti tenutosi all’area aperta, soprattutto nei centri urbani. Dall’altra, si sono verificate nuove ondate di arresti.
Docenti e intellettuali nel mirino
In questi mesi la repressione del regime ha preso di mira attivisti e docenti critici verso le autorità. Primi fra tutti, a fare le spese di questa nuova ondata repressiva sono stati docenti e intellettuali come gli economisti, Parviz Sadeghat e Mohammad Maljoo, insieme alla sociologa Mahsa Asadollahnejad, così come gli scrittori e traduttori, Shirin Karimi e Heyman Rahimi, insieme al ricercatore Rasoul Ghanbari. Tutti gli arrestati avevano espresso dure critiche contro il regime iraniano. Si è trattato della più grande ondata di arresti collettivi di docenti e intellettuali di sinistra degli ultimi anni.
Secondo il quotidiano riformista Sharq, le forze di sicurezza hanno perquisito la casa di Parviz Sadeghat dove hanno sequestrato libri e strumenti elettronici. Simili sono state le denunce della famiglia di Maljoo che ha accusato le autorità di aver confiscato i suoi beni prima di convocarlo per un interrogatorio. In un articolo dello scorso luglio, Parviz Sadeghat aveva denunciato il clima di tensione che si vive nel paese.
In uno dei suoi ultimi interventi, l’economista aveva avvertito che, nonostante il cessate il fuoco dopo la guerra dei 12 giorni con Israele, l’Iran “vive nella stessa retorica di polarizzazione del passato”. Non solo, il docente aveva fatto riferimento al possibile “collasso sistemico” dell’economia iraniana in assenza di riforme, prima di essere arrestato.
Il caso Panahi
Ma la lista degli attivisti arrestati o presi di mira continua ad allungarsi. E ha incluso anche il noto regista iraniano, Jafar Panahi, vincitore del premio alla carriera lo scorso ottobre alla Festa del cinema di Roma. Il regista iraniano, vincitore anche della Palma d’oro a Cannes nel 2025 con il suo film “Un semplice incidente”, è stato condannato a un anno di carcere per propaganda contro lo stato e a un divieto di viaggio di due anni mentre si trovava negli Stati Uniti per promuovere il suo nuovo
film, girato in clandestinità e vietato in Iran. Nella pellicola, Panahi, in carcere nel 2010 e nel 2023, descrive con dialoghi chiari ed efficaci l’incontro casuale di un gruppo di attivisti con il loro carceriere, responsabile di tortura, una vicenda comune a migliaia di iraniani, colpiti proprio dalla repressione del regime dopo le proteste del 2022. “Ho raccontato un’esperienza comune a tutti i prigionieri politici, ti fanno sedere con gli occhi bendati e senza un avvocato, in quei momenti anche il più piccolo suono rimane nella memoria”, aveva spiegato Panahi dopo l’uscita del film.
Il conflitto interno tra élite in Iran
Eppure, in alcuni contesti le cose sono migliorate negli ultimi mesi. “La situazione è migliorata, il volto di Teheran è cambiato con ragazze senza hejab dovunque, molto di più che nel passato. Così vuole il governo del presidente Pezeshkian”, ha raccontato Payam, attivista di Teheran. “C’è un conflitto quotidiano nel sistema di potere. I politici conservatori cercano di limitare qualsiasi cambiamento il più possibile. Ma, in parte, il governo ha più poteri rispetto al passato”, ha commentato invece Reza, attivista di Tabriz.
Se nel 2024, il parlamento iraniano aveva approvato una legge che aumenta le multe per chi non rispetta la legge che impone l’obbligo di indossare il velo per le donne, le nuove regole non sono mai state applicate, come ha confermato il presidente del parlamento, Mohammad Bagher Qalibaf. Il presidente moderato Pezeshkian ha più volte avvertito che queste norme potrebbero diffondere una “guerra nella società” se venissero applicate.
Eppure, le autorità iraniane hanno chiuso decine di negozi, ristoranti e bar che ammettono donne non velate, come confermato dal Centro per i diritti umani in Iran. All’Università di Yazd, per esempio, sono state ammonite alcune studentesse per il loro abbigliamento, come denunciato dall’attivista, Zahra Rahimi. Eppure, “quando si viaggia in metropolitana, la maggior parte delle donne non veste più l’hejab, nonostante le telecamere di sorveglianza”, ha ammesso Anita, un’attivista di Teheran, confermando il clima di apertura nei centri urbani.
Le dinamiche geopolitiche
Dopo il raggiungimento della tregua a Gaza lo scorso 13 ottobre, nonostante la seconda fase del cessate il fuoco fatichi a decollare, l’accordo sul programma nucleare iraniano era il primo punto sul tavolo del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, insieme alla soluzione del conflitto in Ucraina. In particolare, i paesi del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, ma anche il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno iniziato a temere di più la minaccia regionale rappresentata da Israele, in seguito al genocidio a Gaza, rispetto alla Repubblica islamica.
Questo è avvenuto in particolare dopo l’attacco israeliano a Doha dello scorso settembre contro il tavolo negoziale tra Tel Aviv e Hamas che ha fatto pensare ai paesi arabi vicini che Israele non avrebbe avuto alcun limite al suo operato regionale da parte degli Stati Uniti. Tuttavia, non è facile per Stati Uniti e Iran tornare al tavolo negoziale. “Non credo che l’alternativa all’accordo sia lo status quo per i prossimi anni”, ha spiegato Trita Parsi. “L’alternativa a un accordo è l’escalation. E l’alternativa all’escalation è un accordo non lo status quo. Puntare su uno status quo stabile per i prossimi anni penso sia un grave errore. E per entrambe le parti sarebbe molto meglio se andassero verso un vero negoziato”, ha aggiunto Parsi.
Con il nuovo arresto di Narges Mohammadi si aggrava la repressione contro attivisti, intellettuali e registi che sta attraversando l’Iran negli ultimi mesi. Eppure, non tutti i segnali vanno nella direzione della censura da parte delle autorità iraniane, in alcuni contesti, dopo la guerra dei 12 giorni e l’elezione del presidente moderato Pezeshkian i controlli delle forze di sicurezza sono andati rilassandosi. Tuttavia, le pressioni internazionali, con gli attacchi israeliani dello scorso giugno, insieme alla crisi idrica ed economica, hanno messo a dura prova il regime degli ayatollah che negli ultimi due anni ha archiviato o ha visto ridimensionati i suoi principali alleati regionali, dalla Siria di Bashar al-Assad al movimento sciita libanese Hezbollah, perdendo agli occhi degli Stati Uniti leve essenziali per il negoziato sul programma nucleare.