Don Capovilla: “Il mio fermo è parte del piano di Israele di eliminare qualsiasi testimone”

Dopo sette ore di fermo all’aeroporto di Tel Aviv, nella notte di lunedì scorso è stato rilasciato don Nandino Capovilla. Il sacerdote, in viaggio con una delegazione di Pax Christi diretta a Gerusalemme, era stato bloccato dalle autorità israeliane con un diniego di ingresso, giustificato con presunti “pericoli per la pubblica sicurezza o per l’ordine pubblico”. Don Capovilla, noto per il suo impegno a fianco della popolazione palestinese, è autore del libro Sotto il cielo di Gaza, in cui racconta, anche attraverso la voce di operatori umanitari, la vita sotto assedio nella Striscia.
Può raccontare cosa è successo il giorno in cui è atterrato a Tel Aviv, all’aeroporto Ben Gurion, e perché si trovava lì?
Sì. La ragione è molto semplice: da oltre vent’anni, una o due volte all’anno, guido un “pellegrinaggio di giustizia”, è il termine esatto delle nostre esperienze in Terra Santa. Sono viaggi di conoscenza, partecipazione e condivisione, pensati per persone che decidono di non visitare Palestina e Israele come turisti qualsiasi, ma da osservatori, per vedere le ingiustizie e le situazioni che spesso vengono taciute. Quello era il nostro consueto viaggio, anche se in una situazione molto particolare: stavolta era anche una delegazione del Movimento dei Pax Christi.
I controlli in aeroporto sono stati diversi dal solito?
Chiunque sia stato in Israele sa che i controlli non sono eccessivi, anche se a volte ci chiediamo che senso abbiano certe insistenze su particolari. Questa volta, invece, per me è stato diverso: mi hanno portato progressivamente in zone diverse dell’aeroporto e poi invitato a firmare un documento di "denial of entry", cioè di immediata espulsione dal Paese.
Le hanno spiegato la motivazione dell’espulsione?
No. Ho chiesto spiegazioni e di parlare con qualcuno, ma non mi è stato possibile. L’unica informazione resta quella scritta nel documento: sarei “pericolo per la sicurezza nazionale e per l’ordine pubblico”. È un’accusa molto pesante, non solo per un cittadino qualunque, ma ancora di più per un prete.
È stato trattenuto in aeroporto?
Sì. Mi hanno portato in una guardiola, una stanza chiusa, con sei-sette guardie che si alternavano su di noi. Eravamo in tre, e siamo rimasti lì per sette ore. Mi hanno tolto il cellulare e il bagaglio, che non potevo recuperare. Ho notato molte telefonate in entrata, probabilmente pressioni per la mia liberazione. Dovevo chiedere il permesso per qualsiasi cosa: andare in bagno, avere una penna, fare una telefonata. Me ne è stata concessa una sola.
Lei è stata l’unica persona fermata della sua delegazione?
Sì. La delegazione era composta da un gruppo italiano di Pax Christi, tra cui il vescovo Giovanni Ricchiuti, presidente del movimento. Il viaggio era diventato una delegazione proprio per la particolare situazione di aggressione alla Palestina e ai palestinesi.
Nel documento rilasciato dalle autorità israeliane c’è anche un divieto di ritorno nel Paese?
Gli avvocati dovranno valutare meglio la situazione. Il documento non indica anni definiti di divieto, ma dice che, in caso di ritorno, il mio accesso nel Paese sarà possibile solo su richiesta e previa valutazione delle circostanze del momento.
Pensa che il divieto faccia parte di una strategia più ampia per impedire l’accesso agli internazionali che testimoniano le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati?
Assolutamente. L’ultimo libro che ho scritto nasce da un colloquio con un funzionario ONU che era stato espulso anche lui da Israele. Questo conferma l’ipotesi: vale per me come per qualsiasi giornalista o osservatore internazionale. Pensiamo all’impossibilità per i giornalisti di entrare in Cisgiordania e a Gaza, si tratta di un fatto gravissimo e ormai evidente. Ma la novità più inquietante è l’accanimento contro i funzionari delle Nazioni Unite. Non è stato rinnovato il visto a Domenico Andrade, e recentemente nemmeno al suo successore come capo dell’Ufficio ONU per gli affari umanitari (OCHA). A Gaza, l’OCHA ha definito “una triste pietra miliare” la morte di 500 operatori umanitari. Sono numeri che dovrebbero non solo far rabbrividire, ma far scendere in piazza.