“Se il genocidio a Gaza non finisce, anche Israele sparirà”: parla lo storico israeliano Bartov

Un “partito di Dio illiberale e razzista, speculare a Hamas” governa Israele — dice Omer Bartov a Fanpage.it. Sul peggior crimine del suo Paese ha le idee chiare: “A Gaza sono nel mirino le nascite, e questa è la prova più inquietante che è in corso un genocidio”, spiega. Intanto, il comportamento del governo Netanyahu e dell’IDF “alimenta l’antisemitismo”. E “il silenzio degli istituti ebraici che studiano l’olocausto contribuisce”. Secondo Bartov, è necessaria “una pressione internazionale fortissima” su Netanyahu e i suoi. Altrimenti, “non solo il genocidio andrà avanti, ma anche lo Stato ebraico non potrà sopravvivere: Israele finirà”.
La voce di Bartov, storico di fama mondiale specializzato sull’Olocausto e sui genocidi, pesa non solo per il prestigio accademico, ma anche per la sua biografia personale. Ebreo, israeliano, ha prestato a lungo servizio come ufficiale nell’IDF, l’esercito israeliano, negli anni ’70. Proprio a Gaza e in Cisgiordania. Oggi, accusa il suo stesso esercito, il suo governo e il suo paese d’origine di crimini contro l’umanità e di genocidio. Un mese dopo il 7 ottobre,aveva dato l’allarme ma non aveva ancora formulato l’accusa. Della quale adesso è più che convinto. “Sono uno studioso di genocidi. Quando ne vedo uno, lo riconosco”: era l’occhiello di un saggio firmato da Bartov pochi giorni fa sul New York Times. Titolo: “Mai più”. L’articolo è diventato fulcro di un infuocato dibattito globale.
Quella che segue è l’intervista di Fanpage.it con Omer Bartov. Alcune parti sono state riassunte e marginalmente modificate per esigenze di chiarezza e di spazio.

Professor Bartov, inizialmente non aveva definito genocidio ciò che accadeva a Gaza. Cosa le ha fatto cambiare idea?
"Dicevo già che poteva diventarlo. Nel novembre 2023 non c’erano ancora prove sufficienti, e “genocidio” è un termine da usare con molta cautela. Ma avvertivo anche allora che la campagna militare rischiava di andare in quella direzione — e così è stato.
Ciò che ha reso evidente il cambiamento è stata la coerenza tra i discorsi dei leader israeliani — “radiamo al suolo Gaza”, “privateli di cibo e acqua”, “sono animali umani” — e le azioni sul campo: distruzione sistematica, sfollamenti di massa, fame imposta, annientamento delle strutture vitali della società palestinese. Non è più una guerra contro Hamas. È qualcosa di molto più ampio e distruttivo. È genocidio".
E rientra nella definizione legale di genocidio?
"Assolutamente sì. L’articolo 2 della Convenzione ONU sul Genocidio elenca atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Israele ha ucciso decine di migliaia di civili, imposto condizioni di vita intollerabili, causato danni fisici e psicologici enormi. Ma non è solo questione di vittime. Si tratta anche della distruzione delle infrastrutture, delle scuole, degli ospedali, dell’acqua, del cibo.
E, in modo ancor più inquietante, si sono colpite le nascite: la capacità riproduttiva della popolazione. Le strutture ostetriche sono state bombardate, l’accesso alla sanità prenatale è crollato, e si registra un’esplosione di aborti spontanei. Le donne partoriscono tra le tende, sotto le macerie, senza anestesia né medici. Non sono effetti collaterali. Fanno parte della strategia. Quando uno Stato impedisce sistematicamente le nascite all’interno di un gruppo, è genocidio. L’obiettivo non è solo uccidere: è impedire che quel popolo abbia un futuro".
C’è chi sostiene che queste siano solo le tragiche conseguenze di una guerra: Israele vuole colpire Hamas, i civili uccisi sono danni collaterali.
"Sarebbe plausibile se i danni fossero proporzionati e contenuti. Ma non lo sono. Gaza è stata devastata. Oltre il 70% delle infrastrutture è distrutto. Il 90% delle scuole non esiste più. La popolazione è stata spinta in aree del sud pari al 25% della Striscia. Israele dice che ne farà una “zona umanitaria”. In realtà è un campo di detenzione a cielo aperto.
E poi ci sono le dichiarazioni pubbliche: ministri israeliani parlano apertamente di “trasferire” i gazawi all’estero. Netanyahu ha detto che l’unico problema è trovare i paesi che li accolgano. Questo non è combattere Hamas. È rendere Gaza invivibile per spingere i suoi abitanti a fuggire. E, siccome non c’è nessun luogo dove possano andare, questo piano diventa genocidio".
Lei ha servito per quattro anni nell’IDF, come ufficiale. Proprio a Gaza e in Cisgiordania. Territori occupati. Vide mai soldati israeliani comportarsi come si comportano oggi? Quando secondo documentato dall’Onu, da altre organizzazioni e dai media uccidono anche civili innocenti?
"No. L’esercito in cui ho servito era del tutto diverso. Già allora — erano gli anni ’70 — avevo dubbi profondi sull’occupazione dei territori palestinesi. Ma comportamenti simili a quelli odierni non esistevano".
Ha mai pensato allora che un giorno Israele potesse essere essere accusato, in modo credibile, di genocidio?
"Assolutamente no".
C’è una frattura tra gli accademici dell’Olocausto e chi studia il genocidio. Perché molti istituti restano in silenzio su Gaza?
"Perché Israele è nato come risposta all’Olocausto. Era la garanzia che “mai più” sarebbe accaduto. Riconoscere che quello stesso Stato oggi commette un genocidio è devastante per molte persone. Viene considerato scandaloso. Anche se di scandaloso c’è solo il comportamento di Israele a Gaza. Molti preferiscono tacere. O peggio, accusano di antisemitismo chiunque sollevi dubbi.
Oggi la maggior parte degli studiosi di genocidio riconosce la realtà. È nel campo della memorialistica ebraica che c’è silenzio o negazione. Ma se usiamo la memoria dell’Olocausto per giustificare un altro genocidio, allora il motto “mai più” diventa una farsa".
Secondo lei, questa posizione sta danneggiando l’educazione alla Shoah e alla memoria?
"Profondamente. Lo scopo della memoria dell’Olocausto era educare alla resistenza contro la disumanizzazione e l’odio. Ma oggi rischia di ridursi a un discorso tribale: ebrei che parlano di ebrei, solo per gli ebrei. Così si perde la lezione universale. E si perde credibilità".
Però è Hamas che ha cominciato, con i massacri del 7 ottobre. Questo non cambia niente per la responsabilità morale di Israele?
"Hamas è orribile. Nessun dubbio. Ha oppresso i gazawi. Ha avuto e ipoteticamente ha ancora intenti genocidi nei confronti della popolazione di Israele. Ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Ma rispondere al terrore, ai crimini più raccapriccianti e ai più terribili intenti con il genocidio non ti rende certo migliore: il 7 ottobre non dava a Israele una “licenza di genocidio”.
Israele aveva alternative. Aveva dichiarato di volere la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi. Non è quel che poi ha perseguito. L’obiettivo è diventato quello di rendere inabitabile Gaza. E Gaza era già sotto assedio da 16 anni. Il cibo veniva razionato con calcoli calorici. Non era pace. Era repressione continua. Le forze che oggi governano quel che è diventato Israele in realtà hanno parecchie cose in comune, con Hamas".
Si riferisce anche alla deriva clerico-religiosa del governo? Al governo in Israele c’è un “partito di Dio”?
"Esattamente: Un “partito di Dio”, come Hamas. E come Hezbollah (che in arabo significa proprio “Partito di Dio”, ndr). Più esattamente, in Israele governa un’alleanza tra etno-nazionalisti e fanatici religiosi. Eredi diretti del movimento Gush Emunim, che da subito dopo la guerra del 1967 inneggia alla “Grande Israele” biblica. La tendenza è messianica, antidemocratica, illiberale e per molti aspetti razzista.
Anche per questo, Hamas e l’attuale governo israeliano sono speculari. E dipendono l’uno dall’altra. Si alimentano a vicenda. Netanyahu non ha mai voluto davvero eliminare Hamas. Anche se parla di una vittoria finale, mentre l’IDF devasta la Striscia, evita di dire chi prenderà il posto di Hamas. Perché l’unica opzione realistica sarebbe l’Autorità Palestinese — un incubo per il governo israeliano".
Quindi, in realtà, non vuole una vittoria finale su Hamas…
"Ovviamente no. È una vittoria finale che non arriverà mai".
Israele sta diventando uno stato apertamente autoritario e di apartheid?
"Sì. Se succede davvero, cosa resterà della morale di Israele che immaginavamo da giovani sionisti, che immaginavano i nostri padri? Nulla. Mio padre, che è morto nel 2016 a 90 anni, lo diceva già allora: Netanyahu distruggerà il sionismo. E aveva ragione".
Lei è cresciuto in una famiglia fortemente sionista. È stato sionista? Lo è ancora?
"Certo che lo ero. Sono cresciuto in Israele, non era neanche una cosa su cui riflettere: come nascere in Italia ed essere italiano. Volevo che gli ebrei avessero diritto all'autodeterminazione, come qualsiasi altro popolo. Ma col tempo, il sionismo — nato come movimento di liberazione e di emancipazione, con un richiamo all’umanesimo — si è trasformato in un’ideologia di Stato sempre più etno-nazionalista, estremista, suprematista e violenta. Quel tipo di sionismo non mi interessa. Sta distruggendo il sionismo stesso, sta distruggendo vite palestinesi e sta distruggendo Israele. Perché, in queste condizioni, Israele non potrà sopravvivere".
Perché Israele non potrà sopravvivere così com’è oggi?
"Potrà continuare a esistere ancora per un po’, ma sarà un paese sempre più isolato. Le comunità ebraiche nel mondo non vorranno più essere associate a Israele. Non solo per imbarazzo, ma perché Israele, con la sua brutalità, alimenterà l’antisemitismo e lo legittimerà. E Stati così non durano a lungo. Israele finirà. Forse si trasformerà in qualcosa di migliore, ma prima ci saranno sangue e sofferenza. Io, probabilmente, non vivrò abbastanza per vederlo".
Sempre più spesso si confonde Israele con tutti gli ebrei. L’antisemitismo si riaffaccia, prepotente…
"E gli antisemiti sono i principali responsabili dell’antisemitismo, va detto. Esisteva prima di Israele ed esisterà dopo. Ma Israele, con ciò che fa oggi, dà sempre più spazio agli antisemiti per uscire allo scoperto.
E non solo per le azioni attuali, ma per una politica israeliana che da molti anni identificava ogni critica a Israele come antisemitismo. Dopo il 7 ottobre, questo approccio è stato usato per silenziare critiche legittime, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti — nelle università, nei media, nella politica.
Queste false accuse di antisemitismo finiranno per legittimare l’antisemitismo reale, perché la gente penserà che "gli ebrei" o "Israele" stiano censurando la libertà di espressione. È un effetto devastante di questa strategia israeliana, che sfrutta la Shoah o l’antisemitismo per evitare ogni critica".
Emotivamente, come sta elaborando tutto questo? Che cosa significa per lei, come ebreo israeliano, come studioso della Shoah, come ex soldato dell’IDF? Come ci si sente ad accusare pubblicamente il proprio Paese di genocidio?
"È molto deprimente. Senza nemmeno considerare che sono israeliano, che ho amici e parenti in Israele e che ci ho vissuto la prima metà della mia vita, anche solo come essere umano, vedere ciò che sta accadendo a Gaza è straziante.
Ed è molto triste il grado di negazione che c’è in Israele. È trasversale, nella politica, nei media e tra le persone. Gente che conosco si rifiuta di parlarne o mi rimprovera per le mie posizioni. Dicono che non capisco la complessità della situazione. Un giorno, forse, diranno: “In fondo lo sapevamo”.
Ma è qualcosa che conosco bene da altri regimi e da altri tempi: quando accade un genocidio, la maggior parte delle persone non pensa che stia davvero accadendo. Si nascondono".
Non solo nei regimi di altri tempi ma anche in quelli di oggi. Si chiama conformismo. Vede un cammino possibile di redenzione o riconciliazione per Israele? Che cosa servirebbe, a livello politico, culturale, morale?
"Un percorso esiste. Ma bisogna afferrarlo. E non so se le persone lo faranno. In questo momento, non c’è alcuna dinamica di cambiamento. L’opposizione praticamente non esiste.
Ci sono persone meravigliose in Israele. Ma non hanno alcun impatto. Quindi penso che il processo debba partire dall’esterno. Deve cominciare con una forte pressione su Israele. Economica, militare, diplomatica. E che sia dolorosa per i cittadini.
Faccio parte di un’organizzazione che si chiama A Land for All, composta da palestinesi ed ebrei che lavorano insieme a una visione di confederazione, dove ebrei e palestinesi condividono quello spazio. I numeri lo permettono: entrambe le popolazioni sono di circa sette milioni di persone. E credo che molti sarebbero favorevoli, se non fossero resi paranoici e terrorizzati l’uno dell’altro. Ma serve un innesco. E dev’essere uno shock forte".
Dopo la Francia, altri 14 paesi stanno riconoscendo lo Stato di Palestina. È uno “shock forte"?
"Non ne viene niente alla popolazione di Gaza. Bisogna agire, prima di tutto, per fermare l’orrore e far arrivare aiuti massicci. Ma per il quadro più ampio, sì: è un inizio. Però serve molto di più. Israele ha sempre fatto concessioni solo quando è stato costretto a farlo. Quindi, serve ben altro. Sanzioni e azioni concrete. Incluso almeno un embargo parziale sulle armi. Perché senza questo, tutto il resto sono solo parole vuote. Serve di più. Molto di più".