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Emergenza lavoro

Perché il problema sono gli stipendi bassi, non i giovani scansafatiche e il reddito di cittadinanza

I prezzi aumentano, gli stipendi no. Altro che giovani fannulloni o analfabeti. Il problema del mercato del lavoro è tutto qua. Ed è frutto di vent’anni di fallimenti della politica.
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Se pensate che il problema dei lavoratori stagionali sia solo italiano, vi sbagliate di grosso. A Phoenix, negli Usa, metà delle piscine pubbliche rimarranno chiuse la prossima estate perché mancano i bagnini – racconta il Wall Street Journal -, e lo stesso vale per le navette per i turisti nella costa est degli Stati Uniti, perché mancano gli autisti. Labor shortage, la chiamano gli americani, scarsità di lavoro. E sì, c’entrano le “grandi dimissioni”, la filosofia del “si vive una volta sola” che si è impossessata di noi in due anni di pandemia. Ma c’entra soprattutto il combinato disposto di due grandezze molto concrete: i prezzi salgono, gli stipendi no.

Se questo è vero negli Stati Uniti, Paese che più di ogni altro ha visto che crescere i salari reali negli ultimi vent’anni, figuriamoci in Italia dove tra il 1990 a oggi, caso più unico che raro in Europa e nel mondo, gli stipendi sono diminuiti di quasi tre punti percentuali nel giro di trent'anni. E dove lo stesso decorso, ancor più accentuato, è toccato ai redditi. Unite al cocktail due anni di crisi economica, che ci è capitata tra capo e collo mentre eravamo l’unico Paese europeo insieme alla Grecia a non essersi ancora completamente ripreso dalla quella del 2008, un aumento dei prezzi (per ora) nell’ordine del 6,5% e un capitalismo in buona parte tenuto in piedi da anni di sussidi, paci fiscali e prestiti garantiti dallo Stato, e capirete perché stiamo come stiamo. Soprattutto, perché certi stipendi non sono più percepiti come tollerabili da buona parte della forza lavoro, soprattutto quella giovanile. Non in Italia, perlomeno.

In questo contesto, prendersela col reddito di cittadinanzastrumento di sostegno al reddito universale presente in modi e forme diverse in tutti i Paesi europei– è concentrarsi sull’unghia del dito che indica la Luna. Pensare che la panacea in grado di risolvere i mali dell’economia italiana sia affamare i giovani disoccupati, forzandoli ad accettare qualunque proposta pur di salvare la stagione turistica del Belpaese è ancor più velleitario di quanto non sia moralmente abietto.

O meglio ancora: è far finta di non vedere il vero problema di un’economia presa tra l’incudine di Paesi che possono offrire stipendi più alti ai nostri giovani più qualificati, e il martello della concorrenza a basso costo di Paesi in cui i costi di produzione, o i costi dei servizi, sono molto più bassi che da noi.

Noi che, nel frattempo, abbiamo continuato a fare come se niente fosse, incuranti di un ventennio a crescita zero, fieri del nostro microcapitalismo senza un euro in tasca, della nostra idiosincrasia all’innovazione, ancor più se digitale, del nostro assumere che i giovani siano semplicemente un mezzo per comprimere i costi, un po’ come gli stranieri. E che per questo debbano convincersi – prima di tutto loro – che sono una banda di pigroni dequalificati che preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici, anziché spaccarsi la schiena. O di donne che non possono fare carriera fino a che non hanno superato tutti i giri di boa. O di analfabeti che non sanno né scrivere né parlare e che sanno solo chiedere e basta. Perché se si convincono, forse accetteranno ancora di farsi sfruttare, come prima e più di prima.

Spiacenti, e lo diciamo per voi: se questa è la strada che avete deciso di percorrere, come prima e più di prima andrà solo peggio. I giovani – quelli più qualificati per primi, e poi tutti gli altri – scapperanno da questo Paese come, prima e più di prima. Gli investitori scapperanno, come prima e più di prima, da un’economia di trasformatori rimasta senza capitale umano. E i clienti e i turisti abbandoneranno al suo destino un Paese che non investe, come prima e più di prima .

Non abbiamo la bacchetta magica per risolvere da zero tutti questi problemi, ma anche l’avessimo non servirebbe. Servirebbe, semmai, che il capitalismo italiano si liberasse di tutti i suoi alibi e delle sue rendite di posizione e facesse i conti una volta per tutte con la fallimentare realtà dei suoi ultimi vent’anni. Servirebbe, semmai, che la politica smettesse una volta per tutte di sostenere i club delle imprese zombie e i rentier amici degli amici, e la smettesse di tarpare le ali a chi vuole davvero innovare. Servirebbe che gli elettori capissero, e scegliessero, chi vuole metter soldi nella scuola e nel potere d’acquisto di chi lavora e di chi cerca lavoro – ammesso che esista nell’offerta politica italiana – e non chi difende l’intassabilità delle rendite immobiliari e dei grandi patrimoni, e il diritto di evadere le tasse.

Servirebbe, soprattutto, una presa di coscienza collettiva del fatto che tutto questo va fatto qui e ora, e che forse è già troppo tardi, per sperare di salvarsi. Ma come con il riscaldamento globale, e con la pandemia, vale la regola di non guardare in alto. Che l’asteroide esiste solo quando si schianta sulla Terra. E allora, buono schianto a tutti.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it e membro del board of directors dell'European Journalism Centre. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro.15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019). Il suo ultimo libro è "Nel continente nero, la destra alla conquista dell'Europa" (Rizzoli, 2024).
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