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Ex Ilva, Fiom: “6mila lavoratori a rischio senza intervento del governo, è suicidio industriale e strategico”

La crisi dell’ex Ilva entra nella fase più critica. Rischio chiusura per Taranto e gli stabilimenti del Nord Italia, la Fiom: “Migliaia di posti di lavoro a rischio e nessuna strategia industriale del governo”.
Intervista a Loris Scarpa
Responsabile nazionale della siderurgia per la Fiom-Cgil
A cura di Davide Falcioni
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La crisi dell’ex Ilva è arrivata al punto di collasso. Da quando il governo Meloni ha scelto di spingere sul cosiddetto "ciclo corto" – vendere i coils grezzi prodotti a Taranto senza alimentare più gli stabilimenti del Nord Italia – la più grande acciaieria del Paese è entrata in una fase che i sindacati definiscono "di smantellamento". Genova, Novi Ligure e Racconigi rischiano la fermata immediata, Taranto attende la chiusura delle cocherie, e l’intero settore siderurgico nazionale potrebbe perdere in poche settimane migliaia di posti di lavoro diretti e nell’indotto. In mezzo, intanto, resta irrisolta la questione ambientale, affrontata negli anni senza alcuna prospettiva industriale di lungo periodo. Insomma, proprio il governo che ha costruito gran parte della sua fortuna parlando di sovranità industriale, autonomia, difesa dei settori chiave dell’economia nazionale, rischia di accompagnare alla chiusura l’unico polo siderurgico in grado di produrre acciaio primario in Italia.

Per capire quali scenari si stanno delineando, quali sono le responsabilità politiche e perché l’Italia rischia di consegnarsi all’importazione di acciaio da Cina e India, Fanpage.it ha interpellato Loris Scarpa, responsabile nazionale della siderurgia per la Fiom-Cgil, una delle voci più autorevoli nel seguire da anni la vertenza.

Qual è, dal vostro punto di vista, la vera natura della crisi dell’ex Ilva? È una crisi inevitabile o il risultato di precise scelte politiche e industriali compiute negli ultimi anni, soprattutto dall’attuale governo?

La crisi dell’ex Ilva non è affatto un evento naturale o inevitabile. È il prodotto diretto di un disinteresse strutturale del Paese verso l’industria e verso ciò che genera davvero ricchezza. Da anni – e oggi più che mai – si è affermata l’idea che l’iniziativa privata, libera da vincoli e da investimenti pubblici, sia automaticamente in grado di produrre sviluppo. Non è così. Lo vediamo non solo nell’acciaio, ma nell’intero sistema industriale italiano: l’industria non è più considerata come un settore su cui investire, ma come un terreno su cui muoversi solo finanziariamente. L’investimento produttivo è stato sostituito dalla logica speculativa.

Nel caso dell’ex Ilva questo è evidente: i bandi, sia quelli del Mimit (Ministero delle Imprese e del Made in Italy) sia quelli dei commissari, dimostrano che non c’è alcun reale interesse privato a investire nella produzione di acciaio di cui Italia ed Europa hanno bisogno. Non è un caso che alcuni soggetti abbiano offerto un euro simbolico per acquisire il gruppo: significa che nessuno vuole assumersi il peso di investimenti pesanti, né la responsabilità industriale di un asset strategico per il Paese. Il punto è semplice: un Paese che rinuncia a produrre acciaio rinuncia a produrre ricchezza. E se non produci ricchezza, non distribuisci benessere. Noi lo diciamo da tempo: questa crisi è il frutto di una precisa scelta politica, non di una fatalità.

Perché l’acciaio è così strategico per l’Italia e per l’Europa oggi?

Per capirlo bisogna distinguere. L’acciaio prodotto nel Nord Italia è destinato in gran parte all’export. L’Italia esporta molto acciaio verso altri Paesi europei, mentre solo una parte minima viene utilizzata sul nostro territorio. È un acciaio importante, certo, ma non è quello che determina la possibilità di esercitare una vera sovranità industriale.

Il cuore della questione è l’acciaio da ciclo integrale, quello che si produce con gli altiforni e con le tecnologie che oggi dovrebbero essere riconvertite alla decarbonizzazione. È questo l’acciaio strategico: serve all’automotive, agli elettrodomestici, all’industria tecnologica, all’aerospazio, alla difesa, all'edilizia. Senza acciaio primario non produci la filiera che rende un Paese industrialmente rilevante.

L’Italia ha bisogno di almeno 40 milioni di tonnellate annue per alimentare la sua economia. Senza Taranto, questo fabbisogno dovrebbe essere coperto importando 20-30 milioni di tonnellate da Cina e India. Significa dipendere completamente da potenze industriali che oggi giocano una partita globale molto dura. È un suicidio industriale, oltre che strategico.

La vicenda dell'ex Ilva di Taranto è indissolubilmente legata al nodo della salute. Ebbene, la questione ambientale è stata davvero risolta oppure no?

No, non è stata risolta. E non poteva essere risolta, perché gli investimenti necessari non sono stati completati. Il problema parte da lontano: dalla privatizzazione dell’era Riva e dal raddoppio della capacità produttiva di Taranto, ottenuto anche chiudendo l’altoforno di Genova. Poi c’è stato il passaggio con ArcelorMittal, che a un certo punto ha deciso di non investire più in Italia perché aveva altri interessi strategici. Da lì sono saltati gli investimenti sugli impianti, a partire dalle manutenzioni straordinarie, che sono l’elemento minimo per garantire sicurezza e salute.

Negli ultimi anni alcuni interventi sono stati fatti – penso ai fondi sequestrati ai Riva, alla copertura dei parchi minerali, delle aree di stoccaggio, ai filtri Meros. Ma questi interventi, pur importanti, non completano ciò che servirebbe per rendere Taranto un impianto compatibile con la salute. E soprattutto: cosa ce ne facciamo di investimenti costosi se poi lasciamo la fabbrica chiusa o semichiusa?

Oggi Taranto produce acciaio in modo "pulito"?

La produzione attuale è talmente bassa che gli impatti sono molto ridotti rispetto al passato. Ma questo non significa che il problema ambientale sia superato. Significa semplicemente che la fabbrica è quasi ferma. Gli impianti hanno bisogno di investimenti enormi per essere in linea con le normative e con le tecnologie moderne. Senza un piano industriale vero e senza manutenzioni, il ciclo integrale diventa insostenibile sia dal punto di vista ambientale che da quello produttivo. E questo ci riporta alla domanda: quali scelte ha fatto lo Stato? La risposta è semplice: non si è voluto investire davvero.

Come si concilia oggi la produzione dell’acciaio con la tutela della salute?

Servono due condizioni: investimenti e programmazione. La salute si tutela se gli impianti vengono rinnovati, se si passa davvero alla decarbonizzazione, se si gestisce il ciclo integrale con tecnologie moderne, se si fanno manutenzioni costanti. E naturalmente se si progetta un percorso industriale di lungo periodo. Finché la politica continuerà a inseguire l’emergenza, senza una strategia, la salute rimarrà un tema irrisolto. Oggi siamo purtroppo ancora in questa situazione.

Parliamo della mobilitazione di questi giorni. Quali sono le ragioni della protesta?

Le ragioni sono semplici e drammaticamente chiare. Il governo, dopo aver promesso che avrebbe messo a disposizione tutte le risorse necessarie, ha di fatto chiuso i rubinetti. Lo abbiamo capito nell’incontro dell’11 novembre a Palazzo Chigi. Da lì è arrivata la decisione di adottare il cosiddetto "piano ciclo corto": l’unico altoforno ancora in funzione a Taranto produrrà alcuni coils, che però non verranno inviati agli stabilimenti del Nord e neppure lavorati a Taranto. Verranno venduti sul mercato, grezzi.

Questo significa che Genova, Novi Ligure e Racconigi non riceveranno più acciaio e quindi fermeranno gli impianti. Significa che anche Taranto perderà la sua funzione industriale: a febbraio è prevista la chiusura delle cocherie, che sono essenziali per alimentare gli altiforni. Senza coke, chiudi gli altiforni. E senza altiforni non esiste più il ciclo integrale. Tutto questo avviene senza alcuna programmazione verso i forni elettrici, senza un cronoprogramma di decarbonizzazione, senza investimenti.

In sostanza: non produrranno più acciaio e non rinnoveranno gli impianti. È corretto?

Esattamente. È la peggiore combinazione possibile: non mantieni la produzione e non investi. È la strada più rapida verso lo smantellamento.

A quanto ammonta oggi la produzione rispetto al fabbisogno nazionale?

La produzione attuale non supera il milione e mezzo di tonnellate. Neppure due milioni. Potremmo avere capacità massima di 6 milioni, ma siamo anni luce da quel livello. Un altoforno è sotto sequestro, un altro non è tecnicamente pronto a ripartire, e persino l’altoforno 4 – l’unico in marcia – non può essere spinto oltre perché ha bisogno di manutenzioni straordinarie. Anche nella migliore delle ipotesi non arriveremo a 6 milioni prima del 2026 o 2027. Forse.

Quali sono gli effetti occupazionali immediati?

Devastanti. Se il governo decide di vendere sul mercato tutto l’acciaio grezzo, senza alimentare gli impianti di trasformazione, il risultato è che tutti gli stabilimenti a valle si fermano. Oggi ci sono 10 mila dipendenti diretti: almeno 6 mila finirebbero in cassa integrazione nel giro di poche settimane. Da marzo il numero potrebbe aumentare, perché la chiusura delle cocherie avvierebbe una catena di fermate inevitabili.

E poi c’è l’indotto.

Proprio ieri due aziende dell’indotto tarantino hanno annunciato 220 licenziamenti. L’effetto domino è già iniziato.

Si rischia quindi lo smantellamento della siderurgia italiana?

Sì. Lo dico senza giri di parole: siamo davanti allo smantellamento dell’acciaio strategico per l’Italia e per l’Europa. È ciò che sta avvenendo. Ed è esattamente ciò che avevamo denunciato anni fa.

È un paradosso per un governo che parla di sovranità industriale?

Un paradosso enorme. Il governo Meloni parla di indipendenza nazionale, di Made in Italy, di sovranità, ma nei fatti sta dismettendo il principale presidio industriale del Paese. Noi lo denuncia­mo da tempo. È per questo che la vertenza è finita a Palazzo Chigi: è una questione che riguarda l’interesse nazionale.

Sul futuro della governance: spingete verso una forma di nazionalizzazione dell'ex Ilva?

No, non chiediamo una nazionalizzazione totale. Chiediamo una presenza pubblica stabile, com’era all’origine della siderurgia italiana. Taranto, Genova, Piombino: tutti i grandi impianti sono nati grazie all’intervento pubblico. Oggi il settore è in crisi perché è stato abbandonato dal pubblico e privatizzato senza una strategia. Il risultato è davanti agli occhi di tutti.

Noi diciamo una cosa semplice: se i privati offrono un euro, e se persino i fondi speculativi non vogliono assumersi responsabilità, allora deve intervenire il pubblico. E il pubblico ha gli strumenti per farlo: ENI, Enel, Fincantieri, Webuild, Leonardo. Sono aziende partecipate che operano in settori direttamente collegati all’acciaio. Hanno competenze, capitale, interesse industriale. Possono garantire la transizione verso l’acciaio green, stabilizzare i siti, rilanciare la produzione e tutelare l’occupazione. La normativa europea prevede già questa possibilità; non solo, in Italia abbiamo Cassa Depositi e Prestiti, e questo vuol dire che c'è tutto il potenziale economico per rilanciare l'ex Ilva e risolvere anche la questione occupazionale.

Perché non si fa?

Perché manca la volontà politica. Non perché manchino le norme o gli strumenti. La Presidenza del Consiglio dovrebbe spiegare al Paese perché non intende assumersi questa responsabilità. Il ministro Urso continua a dire che non si può fare per ragioni costituzionali, ma è semplicemente falso: manca la volontà, non la possibilità.

State aspettando un incontro con la Presidenza del Consiglio. Ci sono novità?

L’unica certezza è la mobilitazione dei lavoratori, che sta crescendo in tutti gli stabilimenti. Parliamo di persone che da più di dieci anni vivono dentro una crisi occupazionale permanente, mantenendo dignità e professionalità. Non ci fermeremo finché non avremo un confronto vero con la Presidenza del Consiglio. Non è una questione di un incontro formale: è una questione di affrontare finalmente il tema.

Siete ottimisti? La presidente Meloni negli ultimi mesi non ha mostrato grande rispetto per i lavoratori…

L’ottimismo non è il punto. Il punto è che la Presidenza del Consiglio ha un dovere istituzionale: tutelare il lavoro e l’industria. Se davvero il governo pensa che chi sciopera vuole solo farsi un weekend lungo, lo venga a dire ai lavoratori di Genova e Taranto, e vediamo che succede. Noi stiamo chiedendo solo una cosa: che lo Stato faccia il suo lavoro. E continueremo a chiederlo finché non lo farà.

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