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Opinioni

A quando una Fiat a stelle e strisce?

Si fa sempre più marcata la divergenza tra l’andamento positivo delle vendite di Chrysler negli Usa e quello negativo di Fiat in Italia. Non sarebbe il caso di porsi qualche domanda sul destino del Lingotto nel Belpaese?
A cura di Luca Spoldi
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Sergio Marchionne

La Fiat si prepara a chiudere in Italia e trasferirsi in America? La voce torna periodicamente a circolare sul web italiano oltre che sui mercati e numeri alla mano potrebbe starci tutta: se con un ultimo crollo del 15,3% in dicembre il 2011 si è chiuso per il mercato dell’auto in Italia a livelli che non si vedevano dal 1996 (1.757.649 immatricolazioni, il 10,8% in meno dei quasi 2 milioni di vetture vendute nel 2010), negli States il mese scorso dovrebbe essere stato il miglior dicembre degli ultimi 5 anni e portare l’anno a chiudere con circa 13,4 milioni di vetture immatricolate (pari ad oltre 7 anni e mezzo di vendite in Italia).

Nel caso del gruppo Fiat la divergenza è ancora più marcata: in Italia il Lingotto il mese scorso ha visto calare del 19,7% le immatricolazioni rispetto a dicembre 2010 e nell’intero 2011 il calo è risultato pari al 13,8%, col risultato di una quota di mercato scivolata al 29,4% (ma a dicembre si è ridotta ulteriormente: 28,5%). Se poi si va a vedere il dato diffuso da Unrae relativo ai singoli marchi, a fronte del -19,47% di Fiat Auto (passata da oltre 450 mila a poco più di 363 mila vetture) si registra sì una tenuta di Lancia (poco meno di 85 mila vetture, un migliaio meno dell’anno precedente) e un recupero di Alfa Romeo (salita da 51.900 a oltre 58 mila vetture), ma anche un calo di Ferrari (570 vetture immatricolate contro le 685 del 2010) e Maserati (414 contro 499), vale a dire il “top di gamma” su cui il gruppo guadagna in proporzione molto di più che non su modelli come Punto o Panda.

Non solo: l’Audi è riuscita a superare il 2011 indenne (è salita anzi sopra quota 60.500 vetture contro le 59.995 dell’anno prima), come pure Volskwagen (138.770 immatricolazioni contro le 136.488 del 2010), mentre i produttori asiatici segnano addirittura guadagni a doppia cifra come con la coreana Hunday (+20,26%, con oltre 43.400 vetture vendute) e le giapponesi Mitsubishi (+28,56% a quota 7.517) e Nissan (+17,88% a 63.189 vetture). Certo anche altri produttori hanno problemi (Ford ha visto le vendite calare del 19,54% a meno di 147 mila vetture, la Mazda ha sfiorato il 40% di calo a poco più di 6.500 vetture, Peugeot registra uno sconfortante -25,8% poco sopra le 78.200 vetture, Renault -21,45% con poco più di 83.200 auto vendute, Toyota, Subaru e Suzuki oscillano tra il -12% e il -24%), mentre Jeep (marchio della controllata statunitense del Lingotto, Chrysler) sembra ancora in grado di fare breccia avendo più che raddoppiato le consegne (7.878 veicoli, il 117% in più dei 3.618 dell’anno prima).

Risultati che scontano, per il gruppo italiano in particolare, la decisione di rinviare il varo del rinnovo della gamma adducendo come motivazione il perdurare di prospettive non certo brillanti per l'economia del vecchio continente. Ma proprio Chrysler dall’altro lato dell’Atlantico sembra in grado di continuare a sorprendere positivamente, con il consensus degli analisti che dopo il +45% segnato a novembre con 107.172 vetture vendute (si è trattato del sesto mese in cui il produttore ha registrato un incremento delle vendite superiore al 20% su base annua) arrivando a 1.231.095 vetture vendute da inizio anno (oltre il 70% dell’intero mercato dell’auto italiano nel 2011), si attende una crescita delle immatricolazioni del 35% a dicembre rispetto al dicembre 2010.

Così in molti analisti ora si chiedono non “se” Sergio Marchionne trasferirà il focus delle attività del Lingotto negli Usa, ma “quando” lo farà, anche se non è mancato chi ha sottolineato come dopo il passo falso della Fiat 500 (auto che negli Usa non si riesce a vendere con meno di 17.500 vetture vendute nei primi 11 mesi del 2011 e che ha richiesto ai dealer coinvolti un impegno finanziario che in molti giudicano sproporzionato ai risultati ottenuti e a quelli che si potranno ottenere ragionevolmente in futuro) l’immagine del numero uno Fiat sia uscita ridimensionata a Detroit come quella di un abile “giocatore di poker”, un manager certamente in grado di giocarsi al meglio le proprie carte e in particolare cogliere al balzo ogni opportunità finanziaria che si presenti, ma privo di una vera cultura “dell’auto”.

Più un novello Romiti che un Ghidella, insomma, il che dovrebbe portare a interrogarsi quanto meno su due cose: primo, se il governo italiano possa fare qualcosa per evitare di veder chiusi o ceduti uno dopo l’altro i residui stabilimenti del gruppo, visto che del grandioso progetto della “Fabbrica Italia” finora si sono viste molte promesse ma relativamente pochi investimenti concreti; secondo se il governo debba realmente intervenire al di là degli aspetti direttamente legati all’utilizzo di ammortizzatori sociali, visto che quello dell’auto è un settore maturo, che si gioca ormai su una scala mondiale e nel quale Fiat stessa continua a correre il concreto rischio, sia che resti o meno in Italia, di finire presto o tardi fagocitata da qualche altro concorrente dalle spalle più robuste (salvo l’ipotesi di cedere al migliore offerente la maggior parte dei suoi marchi e rimanere come produttore di nicchia, nel qual caso rimane comunque il rischio che la famiglia Agnelli e i suoi manager preferiscano tenersi stretti i marchi a stelle e strisce e le relative quote di mercato e margini di redditività che non quelli italiani ed in particolare Fiat Auto).

In un paese normale queste domande dovrebbero porsele, senza particolare scandalo né rancore, tanto le “parti sociali” (azienda e sindacati) quanto il governo, cui spetterebbe il compito di dettare con un coerente disegno di politica industriale la strada per lo sviluppo o al contrario l’uscita graduale dai singoli settori di attività dirottando attenzioni e investimenti in nuovi settori con migliori prospettive così da mantenere vicino al massimo teorico le prospettive di crescita dell’economia nazionale. Farebbero bene a porsela anche i tax payer visto che a seconda delle risposte alle domande di cui sopra si potrebbero avere costi e benefici differenti sia in termini economici (e di conti pubblici in particolare) sia sociali. Ma l’Italia è ancora un paese normale?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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