
Non si può creare in laboratorio la condizione di ingenuità uditiva e dare per sconosciute al nostro orecchio canzoni ormai intrecciate nella cultura pop italiana. Per esempio, non potrò mai recuperare l’esperienza dell’estate 1993, quando tra i sette e gli otto anni diventai, come molti altri imberbi pischelli italiani, una vittima dell’assoluto predominio musicale degli 883.
Max Pezzali e Mauro Repetto provenivano da un successo del tutto inatteso e imprevedibile, che aveva scosso priorità e gerarchie del gusto, portando ai giovani ascoltatori dell’epoca (specie quelli che vivevano in provincia) un pop che finalmente parlava e suonava come loro, che strizzava l’occhio a qualche mito ma soprattutto ai suoni (filtrati dall’America) del decennio appena trascorso, ma interpretando già lo smarrimento del nuovo decennio, post-ideologico, post-moderno e talvolta post-musicale.
Dopo la sorpresa di Hanno ucciso l’uomo ragno, nell’anno di Bill Clinton e del Trattato di Maastricht arrivava quindi un secondo album che portava a compimento l’emancipazione psicologica e sensuale che questa generazione si meritava, un disco che completava il discorso “di identità” – nelle parole di Max Pezzali – con il “racconto”: Nord Sud Ovest Est uscì appena sei mesi dopo il primo album del duo pavese, consolidando la loro posizione con immagini e parole in continuità (buona parte delle canzoni erano state scritte negli stessi anni di formazione prima del debutto), ma anche con una grafica fumettistica (applicata poi per la prima volta a una sontuosa videografia, riversata in una mitologica e vendutissima videocassetta) che contribuivano a un senso di familiarità e unicità che sono la combinazione esplosiva di ogni successo. Se un prodotto culturale riesce a non spiazzare il suo fruitore e allo stesso tempo distinguersi da ogni altra proposta in circolazione, lì si trovano le migliori premesse per una possibile soddisfazione commerciale. E in un disco pieno di hit, nulla ha colpito nel centro più della title-track, tormentone in piena regola dell’estate ‘93.

“Dopo tanti pezzi in cui raccontavo il qui e l’ora, avevo sentito il bisogno di svagarmi e prendermi una vacanza dalla provincia”, dice Pezzali stesso nella sua autobiografia del 2013 I cowboy non mollano mai. La canzone Nord Sud Ovest Est, in effetti, ha tutte le caratteristiche di una canzone di fuga. Prima di tutto, l’ambientazione musicale, che risulta apparente da subito: la tromba (raddoppiata in armonia da un sassofono) ha immediatamente un timbro argentino e festoso che rimanda al Messico. Max intendeva piazzare il suo viaggio alla ricerca di sé negli stessi luoghi in cui pochi anni prima erano state ambientate le storie di Fandango e Thelma & Louise, andando a pescare dallo stesso bacino a cui tanti uomini bianchi si erano abbeverati, quello del misticismo nativo americano.
La musica “mariachi” che chiaramente informa la produzione di Nord Sud Ovest Est riaccende la fascinazione del pop italiano per l’America latina, che già decenni prima di Bad Bunny e Luis Fonsi aveva trovato modo di esprimersi. Per esempio, solo qualche anno prima Lambada aveva smosso nuovamente le acque tropicali. E così, ancora oggi questo esempio di ibrido intercontinentale può rievocare qualcosa di familiare: non è solo la nostalgia, insomma, che dona ancora rilievo al pezzo, ma il suo contributo a un canone che ha una solidità ormai innegabile, per quanto faccia storcere il naso a molti. Ma l’opzione mesoamericana di Pezzali e Repetto (e Peroni e Guarnerio, che hanno prodotto la traccia e il disco intero) guardava un po’ altrove: certo, il Messico non era estraneo alle orecchie italiane, se consideriamo anche soltanto la popolarità di canzoni come Cielito Lindo e Besame Mucho. Tra Caroselli infarciti di luoghi comuni e l’adorabile proiezione della fuga dagli impegni coniugali nel Messico e nuvole di Conti per tramite di Jannacci, l’idea di America latina del pubblico italiano è più aderente alla realtà oggi, nell’era del reggaeton e del baile funk. Ma, pur nelle sue generalizzazioni da fumetto di Tex Willer, Nord Sud Ovest Est riesce a usare un gergo musicale non completamente posticcio che, si dà il caso, contribuisce in modo netto alle ragioni della sua efficacia.
Cominciamo dalla citata tromba, che dal primo istante del brano suggerisce all’orecchio un tema che, in forma leggermente variata, ricorrerà al termine di ogni ritornello e infine sulla delirante coda semi-strumentale. In una prova di arrangiamento sopraffina, le scale in salita e in discesa suonate da Demo Morselli preparano l’orecchio al movimento della melodia del verso, contribuendo contemporaneamente a quella credibilità che l’ambientazione tex-mex della canzone esige. La tromba, parte dell’armamentario dei gruppi mariachi almeno dagli anni ‘30 del secolo scorso, è l’elemento melodico insieme sentimentale e possente che in un certo senso incarna perfettamente lo spirito del charro, la versione messicana del cowboy che sembra così curiosamente antitetica al maschio europeo insicuro, in cerca di sé stesso, perfettamente interpretato da Pezzali (e dagli ascoltatori un po’ più maturi): lo scontro e confronto di identità molto diverse, insomma, pone ben presto le premesse per una canzone che dovrà risolversi con una risoluzione catastrofica, un incidente stradale di modelli maschili diversi, memorie di musicarelli di Elvis e western seriosi, piccole fantasie da turista e occidentali in crisi spirituale dal quale è impossibile togliere lo sguardo.

Il contributo della tromba fornisce al brano e alla sua plasticosa atmosfera tipicamente milanese qualcosa di profondamente subliminale e, di nuovo, diagonalmente autentico, non fosse altro per l’assolo in cui Morselli esibisce la sua padronanza delle scale costruite sulle terze, cioè che saltano la nota di mezzo e ci ritornano solo dopo, con quel saliscendi che sa così tipicamente di messicano. Ma non è tutto qui. Costruendo linee melodiche in parallelo, intenzionalmente o meno, ci ritroviamo dentro il più classico botta-e-risposta, una tecnica che la canzone messicana adotta in molte sue manifestazioni, come il son jarocho negli ultimi anni portato a livelli eccelsi da Natalia Lafourcade. Bisogna ricordare che il repertorio tradizionale di Veracruz avrebbe dato luce a una delle più celebri melodie messicane, che anche se in modo meno evidente fa uso dello stesso artificio lirico-melodico: La bamba. L’inciso e il suo eco, la frase e il commento, la tesi e l’antitesi: pur nel suo contenitore così straniero, la scrittura dei versi di Nord Sud Ovest Est rispecchia adeguatamente lo spirito del son, dove questa tecnica musicale invita contemporaneamente alla riflessione (magari anche ironica) su quanto appena detto dalla voce principale, ma anche alla memorizzazione della melodia stessa. Nel dialogo interno tra Max e la voce misteriosa (la sua coscienza? lo spirito del deserto? gli alieni?) si inchiodano gli elementi sonori e tematici che servono alla comprensione del brano, e questo dona una solidità inaspettata alla parte teoricamente più debole di ogni composizione, la strofa.
Casualmente – o forse no – nell’ossatura armonica di Nord Sud Ovest Est c’è proprio lo stesso DNA probabilmente di estrazione afrocubana (perché ricorre anche nel son isolano) che si sente nel più celebre adattamento della Bamba, quello che portò Ritchie Valens a una breve fama negli Stati Uniti. Non una progressione – come diciamo con eccesso di positivismo; né veramente un giro – come disegniamo nell’aria delle metafore musicali; ma piuttosto una spirale che tira in una direzione e poi ritorna all’indietro, come se ogni movimento strumentale fosse solo una lunga avancarica per uno sparo del quale non si ha neppure il tempo di godere il rinculo. Pura energia che si divora e viene nuovamente ricacciata all’infuori. Non a caso troviamo lo stesso schema in canzoni che hanno definito l’identità del power pop, da quello più crudo di Wild Thing dei Troggs a quello più giocattoloso di Walking On Sunshine di Katrina and the Waves (altro pezzo in cui le trombe fanno un gran lavoro). In una serie infinita di variazioni da The Joker a Da Da Da, dai Vengaboys agli Weezer, questa particolare successione chiastica di accordi ha funzionato con le chitarre brandite alla bell’e meglio o con più complicate sequenze di strumenti, ma senza mai perdere quella spinta che anche qui fa macinare come un trattore la strofa e il ritornello.

Ma se la musica di una festa popolare può procedere così quasi all’infinito, con spirali armoniche e botta-e-risposta ostinati (e un eventuale refrain più per dare respiro che per cantare in coro), una canzone pop non può permettersi certi lussi tribali, e deve obbedire ai limiti temporali e alle costrizioni architettoniche dell’ascolto radiofonico e discografico: servono argini per contenere e convogliare l’energia che la canzone ha stillato dal primo istante. Serve, cioè, un bridge o un pre-ritornello: qualche forma di pausa che, possibilmente, non interrompa il flusso. Pezzali, autore sopraffino, lo trova anche qui: dopo una sfilza di accordi maggiori, un Mi minore fa precipitare nel canyon una frana che obbliga a un millisecondo di riflessione, offrendo all’ascoltatore il modo di entrare per un attimo nella psiche del protagonista. Si tratta di un’ombra passeggera, che raggela l’aria il tempo necessario per farci zompare di nuovo in aria con un “uoo-oo” che sembra più che mai liberatorio. E così, l’intrattenitore delle masse incontra il narratore, e il pubblico è tirato in mezzo in due maniere.
Nord Sud Ovest Est si appiccica alla memoria anche per la sua impostazione narrativa perfetta proprio perché quasi invisibile. Sappiamo c’è un protagonista in viaggio, e nel suo viaggio leggiamo uno sviluppo del personaggio, vediamo messe a fuoco le sue priorità, scopriamo in ogni pre-ritornello un elemento di crescita (dalla sicumera della scena alla cantina, al dubbio della visione dello sciamano fino alla promessa finale del vento), e quindi uno svelamento finale che non solo avvera l’arco del racconto ma – cosa importante quando si scrivono canzoni e non sceneggiature – realizza il senso delle parole del ritornello. “Starò cercando lei o forse me”, si chiede il Pindaro della generazione X italiana, arrivata sulla scena già con il dubbio di non avere un posto al mondo. Ma se il viaggio deve continuare in eterno perché una destinazione non è prevista, allora l’evasione sbarazzina della canzone è un miraggio che si sposta ogni volta un po’ più in là, sempre più invitante anche perché siamo sempre costantemente invitati ad alzare i tacchi.
“Nord Sud Ovest Est”, infatti, non è un refrain sul quale è comodo riposare: in una lingua che detesta chiudere le parole con una consonante com’è l’italiano, Pezzali (che resta un punk nel profondo) ce ne mette quattro di fila, tutte stoppate da un’occlusiva dentale che proprio non vuole saperne di sciogliersi nella sillaba successiva. Per quanto accattivante nella sua forma melodica, l’orecchio non vuole indugiare sulla rosa dei venti, e ci costringe a forzare l’attenzione sulla seconda parte, quella introspettiva. Senza soluzione, naturalmente: come non usa più, infatti, il pezzo si chiude sfumando, lasciandoci immaginare il protagonista sempre più smarrito in un viaggio che dal sentimentale è andato dritto nel piano dell’esistenziale. Forse quella versione di Max e di noi che ascoltavamo vaga ancora per il deserto tra Arizona e Sonora, forse è progredito a uno stadio di vita superiore o si è trovato una nuova carriera in una band di mariachi. Sicuramente non pensa più alla “sua lei”, ma non può dimenticare quella tromba squillante, quelle voci interiori, quegli accordi attorcigliati. E forse qualche mossa di danza di Mauro Repetto, figura sciamanica se mai ve n’è stata una nel pop italiano.
