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Mesopotamia: scoperti proiettili preistorici e lo scheletro di un infante di 2000 anni fa

Sono due gli interessanti rinvenimenti avvenuti durante la recente campagna archeologica a Girdi Matrab nell’Iraq del Nord. I proiettili ovoidali di argilla risalenti all’età calcolitica e le ossa trovate dentro una giara da cucina. Il direttore dello scavo: “L’analisi del aDNA sullo scheletro ci dirà chi abitava queste terre alla fine del primo millennio a.C.”.
A cura di Claudia Procentese
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Urriti, sumeri, assiri, babilonesi, persiani, macedoni. Tanti i popoli e i conquistatori che sono passati da Erbil prima della conquista islamica. La capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno è uno dei più antichi insediamenti del mondo, abitato in modo continuativo da almeno seimila anni. Nella sua piana, crocevia di civiltà e culture, da tre anni proseguono le campagne del progetto archeologico di Girdi Matrab (la “collina di terra” in curdo), dirette dall’archeologo napoletano Rocco Palermo, dal primo agosto professore di Archeologia classica e del Vicino Oriente al Bryn Mawr College in Pennsylvania. È lui a parlarci per la prima volta dei risultati dell’ultimo, il terzo, cantiere di scavo svoltosi dal 9 luglio al 13 agosto e a mostrarci in esclusiva le immagini degli interessanti rinvenimenti: una dozzina di proiettili preistorici e lo scheletro di un infante d’età ellenistica.

Quarant’anni, appassionato di ciclismo che pratica nei momenti liberi quasi come paradigma di resistenza fisica e psicologica in luoghi impervi, laureatosi e specializzato alla Federico II di Napoli, ha proseguito i suoi studi con un post-dottorato a Groningen, nei Paesi Bassi, come ricercatore a Pisa e collaboratore ad Harvard. Modi affabili e parlantina sciolta tradiscono la sua passione per la materia di cui è innamorato fin da piccolo. Ha partecipato, co-diretto e diretto progetti archeologici in Italia, Siria, Turchia, Giordania, Oman, Iraq e Canada artico, ma dice di sentirsi veramente a casa nella Mesopotamia antica, terra di mezzo dove le regioni del Mediterraneo incontrano l’altopiano iranico e le immense distese dell’Asia. Ed è così che la descrive con la disciplina dello scienziato e l’intuito dell’archeologo.

Professore ci racconti della prima di queste scoperte quasi a chiusura di cantiere… 

Proprio sul fil di lana, è vero. Durante il penultimo giorno di scavo, sotto uno dei piani intermedi delle tre fasi abitative di un edificio, parte di un grande complesso residenziale ellenistico, databile tra il 340 e il 280 a.C., è comparsa una giara contenente i resti di un infante. In pratica una pentolaccia da cucina, di quelle che si mettevano sul fuoco, custodiva all’interno lo scheletro, conservato in perfette condizioni, forse di un bambino, maschio. Sulla base delle dimensioni ossee e considerando la presenza di un dente, supponiamo potesse avere un anno di età, insomma non un neonato.

Non è strano seppellire bambini dentro una giara sotto il pavimento?

No, è un’usanza comune, si tratta di una tradizione mesopotamica risalente all’età del Bronzo. Tombe subpavimentali di infanti, neonati o feti, erano diffuse, nel nostro caso ubicata sotto il piano di frequentazione dell’area che abbiamo contrassegnato come A e da cui siamo partiti tre anni fa con lo scavo. È interessante che questi abitanti di età ellenistica, e che probabilmente avevano contatti con colonie greche della Mesopotamia, mantenevano a livello socio-culturale delle tradizioni di più antico stampo orientale, come appunto la sepoltura sotto il pavimento.

Una sorta di “cappella domestica”, che significato aveva?

La spiegazione è innanzitutto antropologica: i neonati erano sepolti in un posto dove le madri potevano averli vicino nella vita di tutti i giorni. Non dimentichiamo, inoltre, che questa sorta di sepoltura informale riservata agli infanti è attribuibile verosimilmente al fatto che gli infanti non erano considerati membri effettivi della società, nel senso che la loro morte interessava solo la famiglia, a differenza della morte di un adulto che invece era un fatto riguardante tutta la comunità.

Quindi una sepoltura di tradizione mesopotamica dell’età del Bronzo, ma lo scheletro è di età ellenistica, come si spiega?

Sono tradizioni che vanno al di là dei mutamenti politici e che pervadevano la quotidianità. Poco importa se c’erano gli assiri o i greci. Ci troviamo in zone rurali, inevitabile fossero legate a vecchie consuetudini. Ad esempio, anche la ceramica che abbiamo rinvenuto presenta fortissimi richiami assiri. Ci sono forme chiaramente di tradizione assira, leggermente modificate a livello morfologico tra impasti e trattamento della superficie, e forme di imitazione, di derivazione occidentale, come le classiche ciotole a orlo rientrante. È una commistione costante tra usi, culti mediterranei e resistenza locale.

Ma allora chi abitava questo “villaggio”?

Dobbiamo attendere le analisi scientifiche del cosiddetto aDNA (DNA antico) sull’infante, che potrebbe fornire indicazioni utili per quel che concerne le origini dell’individuo e il suo ruolo nel contesto delle grandi migrazioni e trasformazioni di epoca ellenistica. Ovvero utili per capire se il bambino fosse originario di lì oppure se provenisse da un ambiente egeo-anatolico. Lo scenario è aperto, tuttavia propendiamo per l’origine locale.

L’abitato ellenistico com’era caratterizzato?

Le indagini geo-fisiche, condotte in collaborazione con la Empory University di Atlanta, ci hanno permesso di mettere in luce i resti di questo abitato, contraddistinto da una serie di edifici a carattere domestico con fornaci per la realizzazione delle ceramiche, forni (tandoor) per la cottura di cibo e una notevole quantità di pesi da telaio che, unitamente ad un numero elevato di ossa di caprovini, confermerebbe una produzione tessile quantomeno su scala locale.

L’altra scoperta, sempre in questa campagna scavo 2023, riguarda un periodo più antico, cioè la preistoria.

Sì, ma per non confondere le storie e i piani cronologici, occorre a questo punto andarci per gradi e fare due premesse.

Quali?

Sul contesto di indagine in cui sono avvenute queste scoperte. Prima premessa: il sito di Girdi Matrab è formato da otto colline antropiche (“gird” in curdo, “tell” in arabo), cioè alture artificiali, risultato di millenni di insediamenti distrutti e ricostruiti sullo stesso posto, perché ricordiamo che le architetture erano di mattone crudo, materiale deperibile. Colline di circa due metri di altezza orbitanti intorno ad una centrale di quasi cinque metri.

La seconda premessa?

Tale sito è stato occupato inizialmente durante il cosiddetto periodo Ubaid (circa 5000 – 4500 a.C.), per poi espandersi nell’età del Rame (periodo calcolitico, 4500 – 3100 a.C.) ed essere abbandonato per millenni prima di una massiccia rioccupazione in epoca ellenistica (IV – II sec. a.C.). Sulla base di dati preliminari è questo il momento di massima urbanizzazione e crescita demografica di Girdi Matrab. Le campagne di scavo di questi ultimi anni hanno, quindi, interessato sia le fasi più antiche che quelle relativamente recenti, mettendo in luce notevoli resti architettonici e una cultura materiale estremamente interessante per lo studio delle popolazioni mesopotamiche dalla preistoria all’epoca classica.

Insomma, l’abbandono per millenni ha prodotto un vuoto insediativo?

Sì, il sito dal 3100 a.C. è disabitato. Viene rioccupato soltanto in epoca ellenistica, abbandonato e mai più occupato, a partire dai primi secoli del I millennio d.C. Dunque, questi i due blocchi cronologici insediativi: preistorico (VI – IV millennio) ed ellenistico (fine I millennio a.C. – inizio I millennio d.C.). E a questo punto, arriviamo alla seconda scoperta.

Cioè?

Sulla base dei sondaggi sapevamo che la distribuzione del materiale preistorico coincideva con la collina centrale più alta. Perciò abbiamo aperto qui una cosiddetta trincea a gradoni, “step trench”, e a non più di venti centimetri sotto la superficie è comparso subito lo strato del periodo Uruk, cioè il tardo calcolitico.

L'archeologo Rocco Palermo
L'archeologo Rocco Palermo

Quindi la collina centrale non è stata occupata in periodo ellenistico, perché?

Non lo sappiamo, ma poiché l’archeologia è fatta anche di suggestioni, due sono finora le ipotesi sul tavolo della ricerca, ma che vanno opportunamente verificate, è ovvio. Era una collina usata o solo per rituali o come segnacolo da cui partire per dividere esattamente lo spazio, il terreno agricolo, delle altre sette colline-fattorie intorno, contemporanee ma distinte tra loro.

Qui cosa avete trovato?

Lo scavo del monticello principale ha svelato una significativa sequenza insediativa di epoca calcolitica (età del Rame) che va dal 4300 al 3500 a.C. Piccole abitazioni in mattone crudo essiccate al sole, fornaci per la realizzazione di contenitori ceramici, focolari per la preparazione del cibo e per il riscaldamento degli ambienti si sono mirabilmente conservati, insieme ad una sostanziosa quantità di ceramica che mostra segni di una precisa standardizzazione morfologica, forse dovuta al controllo “statale” delle razioni per lavoratori e “dipendenti”. Si tratta di una delle primissime forme di organizzazione socio-economica molto diffusa in Mesopotamia durante l’emergere delle cosiddette società complesse e delle prime forme di urbanizzazione. Ma c’era in serbo dell’altro.

Cosa?

L’ultimo giorno di scavo con grande sorpresa del team al lavoro nell’area B (la trincea calcolitica aperta in quest’ultima campagna scavo), in una fossa non tanto profonda, sono stati trovati una dozzina di cosiddetti “slings” o “clay bullets”, proiettili ovoidali di argilla comunemente usati per attività “militari” nella Mesopotamia preistorica.

Un deposito di armi?

No. L’esplorazione delle fasi più antiche di questo monticello centrale (datato circa al 4300 a. C.) ci ha posto di fronte ad una serie di livelli di distruzione (tracce di cenere e terreno bruciato con poche architetture) che potrebbero aver segnato la fine di uno dei primi momenti insediativi a Matrab. I proiettili sono stati trovati immediatamente al di sotto di questa evidenza di distruzione.

Dunque sarebbero traccia di una battaglia?

Sono tipo i sassi lanciati con le fionde lunghe palestinesi, che sul mattone crudo facevano sicuro danno. Si tratterebbe di una chiara prova di un attacco all’insediamento di Girdi Matrab in un momento di grande cambiamento per la Mesopotamia, in cui migrazioni interne dal Sud al Nord portarono in contatto diverse comunità le cui strutture organizzative sono in questo momento predisposte su base verticale (gerarchia sociale) e non più orizzontale (assenza di gerarchia) e dunque prone allo scontro sociale tra diversi segmenti della popolazione. Attraverso il buco della serratura, offerto dai proiettili di argilla e dagli strati di distruzione, si apre questo panorama d’ipotesi. Nel 2024 ci allargheremo proprio in corrispondenza di questi ultimi gradoni di trincea per capirne di più.

Quando è cominciato il GMAP (Girdi Matrab Archaeological Project)?

C’è stato prima un periodo di saggi e mappature. All’interno di un programma di ricognizione territoriale dell’intera provincia di Erbil, il sito di Girdi Matrab è stato documentato per la prima volta soltanto nel 2012, da colleghi dell’università di Harvard, con cui ho collaborato per parecchi anni. Dopo una seconda esplorazione, mediante metodologia più intensiva, trasferitomi all’università di Pisa, ho chiesto una licenza di scavo che mi è stata concessa. E così nel 2021 comincia ufficialmente il progetto GMAB, spin-off di quello di Harvard, e subito alcuni esami geofisici evidenziano la presenza di un grande edificio architettonicamente complesso. Nel 2022 abbiamo cominciato a scavare, individuando nell’area A una serie di ambienti a destinazione domestica e artigianale in mattoni crudi, cioè di argilla essiccati al sole, molto ben conservati con pavimenti di ciottoli, frammenti ceramici e terra battuta. In pratica la parte ellenistica. Quest’anno abbiamo allargato l’area A e quello che pensavo fosse un grosso palazzetto, una fattoria fortificata, adesso sono più convinto sia parte di un complesso, cioè vari edifici collegati tra loro da ambienti aperti. Sempre quest’anno abbiamo aperto l’area B, per l’appunto la trincea preistorica sulla collina centrale.

Capita che l’archeologia del Vicino Oriente appaia invece, in un banale gioco di parole, lontana dalla nostra sensibilità di occidentali. Come ci spiegherebbe l’importanza del sito di Girdi Matrab?

L’archeologia post-assira in Mesopotamia è un filone relativamente nuovo della ricerca. Fino a quindici anni fa gli archeologi del Vicino Oriente classico si concentravano poco su quello che successe dopo l’Assiria, di conseguenza non esistevano tanti siti di riferimento. Noi oggi stiamo codificando per la prima volta l’assemblaggio, l’orizzonte ceramico, stiamo scoprendo l’architettura di questo periodo in Mesopotamia, che è quella rurale, non dei palazzi scavati a Seleucia o ad Antiochia. Girdi Matrab è l’unico sito che permetterà di comprendere la Mesopotamia ellenistica di cui si sa davvero poco. Un sito nel cuore dell’impero assiro, per intenderci è come scavare un insediamento dopo la caduta di Roma a venti chilometri da Roma.

A parte le temperature da 50 gradi all’ombra, che difficoltà avete incontrato in questa parte di Iraq? C’è ancora rischio di scontri?

L’Iraq è un Paese di cui abbiamo sentito parlare spesso a causa della grande avanzata dell’Isis, ma la piana di Erbil è un’isola felice. Lo Stato iracheno sta attraversando un periodo di stabilità politica e i curdi beneficiano di larga autonomia rispetto al governo centrale, cioè il Kurdistan iracheno è regione autonoma, si autogoverna, piuttosto distaccata dalle dinamiche irachene. Il pericolo lo avvertimmo solo nel 2014 quando l’Isis era molto vicino e prese il controllo della città di Mosul, cominciando una campagna di devastazione e saccheggio del patrimonio culturale senza precedenti.

Uno dei momenti più bui nella storia del patrimonio e della civiltà iracheni: con il giusto quantitativo di dinamite si potevano spazzare via secoli di storia.

Assolutamente, ma comunque l’accoglienza riservataci da parte del popolo iracheno è sempre stata calorosa. La campagna del 2023, così come le precedenti, non avrebbe potuto svolgersi senza il supporto dei tantissimi colleghi e amici della Direzione generale delle Antichità del Kurdistan iracheno e di Erbil, oltre che del nostro ministero degli Affari esteri, attraverso il console generale a Erbil, Michele Camerota, che ringrazio personalmente. Ma la mia riconoscenza più dovuta va al gruppo di operai che ha collaborato con gli archeologi sul campo: senza di loro nessuna conoscenza del passato della Mesopotamia, anche piccola, sarebbe stata possibile, in passato così come oggi e in futuro.

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Tra un paio di settimane sarà l’America ad accoglierla, inizia il suo primo semestre oltreoceano di insegnamento. Si considera un cervello in fuga?

No, diciamo di no, ho scelto io di trasferirmi in America, da sempre collaboro con gli Stati Uniti. Serviva un profilo come il mio e ho colto subito l’occasione.

Allora la prossima campagna scavo a Girdi Matrab sarà targata USA?

Sì, l’anno prossimo sarà uno scavo americano, ma ovviamente accettiamo anche studenti italiani e di ogni nazionalità. A noi interessa la ricerca senza confini. I tredici componenti del team internazionale GMAP 2023 è rientrato da poco negli Stati Uniti e in Italia, e si prepara all’analisi dettagliata dei nuovi dati raccolti.

Professore, ritornando ad Erbil e alla Mesopotamia, da queste parti è come se ci fosse troppa storia per essere contenuta nei confini di vecchi e nuovi Stati, come vede il futuro di questa terra?

Prospero, se riescono a frenare la corruzione che è imperante.

Che vuole dire?

Dopo assedi e battaglie, antiche e moderne, ad insidiarla ora ci sono uno sviluppo troppo veloce e il cemento selvaggio. Ho visto Erbil cambiare nell’ultimo decennio, ora sembra Dubai, da un lato ci sono i palazzoni dei mega ricchi, dall’altro i disperati. La benzina costa un dollaro e 10, per un Paese che siede sul petrolio è una cifra enorme. Ed essere seduti sul petrolio significa che basta una scintilla per far esplodere tutto. Le disuguaglianze portano ai contrasti sociali e verso un equilibrio politico precario, che però sarebbero superabili con un po’ di saggezza.

In questo quadro geo-politico così instabile, l’archeologia che ruolo ha o potrebbe avere?

Fondamentale, perché i curdi sono molto legati al loro patrimonio culturale, li distingue dagli arabi intorno. Talvolta è veicolato in modo scorretto, strumentalizzato, ma dobbiamo calarci anche nel loro difficile tessuto di quotidianità, fatto di ostacoli cronici. Ad esempio, purtroppo non esiste dialogo tra i vari ministeri e capita che il ministero delle Infrastrutture ti costruisca un’autostrada su un sito archeologico senza chiedere nulla a nessuno.

Ne viene fuori un quadro in cui la frenesia dello sviluppo economico senza ragionamento rischia di mettere il passato in un angolo. L’archeologo cosa può fare, se può fare?

A proposito di autostrade, l’archeologia in Iraq è una delle poche vie percorribili per la ristrutturazione del Paese perché gli archeologi lo conoscono meglio dei diplomatici o dei politici chiusi nei palazzi. Chi governa dovrebbe interpellarci di più, stiamo tra la gente, ne capiamo gli umori, i sentimenti, le esigenze. Alla fine l’archeologia è strumento di conoscenza di ogni tempo, passato o presente che sia.

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