Mecna: “Disegno album per Fibra e Mango, ma resto un rapper. Fare il botto? Perché no, ma solo con la mia musica”

Mecna ha pubblicato il nuovo album "Discordia, armonia e altri stati d'animo" che arriva pochi mesi dopo l'uscita dell'EP Introspezione e ancora una volta il rapper riflette sul proprio mondo emotivo perché, come riassume nella coda dell'album, citando Ghemon, "niente è tanto personale che non si può raccontare". Un album intimo, in cui Corrado Grilli – vero nome del rapper – si mette a nudo e lo fa parlando di sé in varie sfaccettature, riflettendo sul proprio mondo interiore fino ad allargarsi e guaradre anche al mondo discografico. Ma Mecna ha anche un'altra vita, sempre intrecciata a quella musicale, visto che è uno dei grafici più richiesti e apprezzati nel mondo del rap e del pop, disegnando le copertine da Fabri Fibra e Marracash ad Angelina Mango. Ne ha parlato in questa intervista a Fanpage.
La spiegazione di questo album è contenuta alla fine del disco, nel sample di un pezzo di Ghemon che dice "niente è tanto personale che non si può raccontare".
È vero, quel pezzo di Ghemon è talmente personale che non si può davvero raccontare. Diciamo che rappresenta un po’ il concept del disco, chiude un cerchio. Sicuramente Ritratti è il momento in cui tiro le fila di tutto: del disco, ma anche di quello che mi è successo e di ciò che mi succede.
È una cosa che fai spesso nei tuoi lavori?
Sì, in realtà sì. Nei miei dischi ci sono spesso dei brani in cui racconto quello che vedo, o quello che sento in quel momento. In questo caso, la scelta del sample è arrivata proprio verso la fine. Avevo già scritto l’outro e, da qualche giorno, mi rimbombava in testa quel brano di Ghemon — anche per il tipo di scrittura, per il flow. Avevo scritto delle cose che me lo ricordavano, così l’ho riascoltato e quando è uscita quella frase, mi sono detto: “Wow, questa la devo inserire”. Perché riassume in modo perfetto non solo tanto di quello che c’è nel disco, ma anche l’essenza di quello che ho sempre fatto.
L’album si apre con questi versi: "Sono davvero felice qua, con la fortuna ad un passo, qualcuno dice che la raggiungerò ma non la merito affatto". Immagino non sia casuale.
Sì, per me nulla è casuale. Mi piace che le canzoni all'inizio dei miei dischi abbiano un'impronta diversa, anche a livello sonoro. Quello è forse il pezzo più "alieno" del disco. Era un pezzo che avevo fatto e non rientrato nel disco precedente, quindi era un ponte. Era nata durante una session con Lunar e Alessandro Ciancio, ai tempi di Stupido amore. Era completamente diverso da com'è oggi, quindi lo abbiamo spogliato, dandogli una veste più sospesa. Sapevo già che sarebbe stato l’intro.
"Ritratti" è il brano in cui esci fuori dal racconto di te, sembra quasi che ti voglia lasciare una via d'uscita verso il futuro.
Anche questa cosa ricorre nei miei testi, anche nell'EP Introspezione ci sono dei segnali. Pensa al concetto di "discordia", essere dentro a un mondo senza appartenervi del tutto, questo tipo di sensazione mi aiuta tanto a scrivere, di base c'è tanto riferimento alla musica, all'industria. Penso anche a Ottobre Rosso con Ghemon che era una lettera aperta al rap italiano. Quel tipo di riflessione torna sempre.
Sempre in "Ritratti" dici: "Ho un altro disco invernale, ma non è il disco dell’anno, è ciò che ho dentro". È anche una presa di posizione alla faccia dell'egotrip?
Sì. Oggi sembra che l’obiettivo sia fare "il disco dell’anno", con numeri e approvazione. Ma ci sono anche altri tipi di percorsi più lenti, dei dischi che vanno capiti col tempo. Io dico: "Voi volete il disco dell’anno, io non ve lo darò o se lo sarà non lo sarà per tutti". Per me l'ho fatto comunque il disco dell'anno, ti sto dando me stesso.
Mettersi a nudo così tanto non è semplice. Ti pesa il fatto che poi certe cose diventino pubbliche?
Quando scrivo non ci penso, non faccio troppi calcoli. Il difficile arriva dopo, quando realizzi che certe cose diventano di tutti. Però, alla fine, i pezzi più personali sono sempre quelli che la gente apprezza di più perché sente questa esigenza e io alzo le mani rispetto al fatto che le ho scritte. Alla fine non mi sono mai pentito di aver raccontato troppo anche se ho scritto canzoni in cui ho raccontato tanto.
C’è un brano, "A Ciel sereno" che mi pare lo spin off di "Canzone da dedicare", è un testo molto intenso. È forse il più personale?
Canzone da dedicare c'erano momenti vari, presi da varie parti, ma se la si legge da questo punto di vista è come dici, fa parte delle esperienze di vita mia e non mia. Per quanto riguarda A Ciel sereno avevo il sample di Faccianuvola, l’ho passato a Fudasca, il produttore, e in poco tempo il brano è venuto fuori, ed è una cosa che mi succede raramente. Quando succede così, non mi interrogo troppo.
Musicalmente, dove volevi andare con questo disco?
Ho ascoltato molto Dominic Fike, Bon Iver, quel tipo di istintività mi ha ispirato, ed era una cosa che forse negli anni avevo un po' perso. A volte è bello ritrovare quella spontaneità, anche nel registrare da casa. A livello di reference non ho premeditato nulla: ho seguito i brani che mi emozionavano di più tra quelli che avevo scritto e mi sono reso conto che andavano tutti in una determinata direzione.
C’è molto Lo-Fi nel disco, una scelta precisa?
Sì, merito anche della passione di Fudasca, che ha quella sensibilità. Con lui e Lunar abbiamo trovato un equilibrio: due stili diversi ma coerenti nel suono. Ho scritto tanto rap e a me piace farlo sui 90-95 BPM, il mio tempo naturale e alla fine il disco suona su quel tempo lì. La scelta di prendersi il rischio di fare un disco che suonasse un po' troppo simile a se stesso, però per adesso mi sembra che stia piacendo soprattutto per quello.
In un mondo di dischi playlist, ben venga un disco omogeneo e con un'identità.
Esatto.
Mi piace come usi gli "outro": penso a quello di "Alfabeto", che scompare come il ricordo di cui parla la canzone.
Quel fade-out rappresenta i ricordi: nitidi all’inizio, poi confusi. Mi piace lasciare qualcosa in sospeso, come già avevo fatto in un pezzo di Blu Karaoke.
Cosa hai perso e cosa hai ritrovato in questi anni?
Ho perso, e poi ritrovato, la spontaneità nell'approccio alla musica. Credo sia una cosa normale, a volte vieni risucchiato dal ritmo delle cose, dal voler fare troppo. E non lo dico come giustificazione, come qualcosa su cui non hai potere, so di averlo voluto, non è vittimismo. Il classico perdersi per ritrovarsi, ma stiamo parlando di dettagli, non penso di essermi mai veramente perso.
L'interpolazione di "Teenage Dirtbag" è perché ti sei sentito un adolescente sfigato?
Non proprio, ma è un pezzo che amavo da ragazzino, quando era in quella fase di assorbimento musicale. Anche Lunar era molto affezionato a quel brano, è stata una sfida: prendere un pezzo energico e trasformarlo in una ballad. È una mega hit ma non è così conosciuta, era più una cosa fatta per noi, ma è uscita bene.
Nel disco dici: "Serve qualcuno con cui andare a Sanremo, perché da solo non ci provi nemmeno", ovvero?
È una frecciatina a un sistema di cose per cui sembra che alcuni artisti non bastino a se stessi e bisogna andare in cordata. Io invece rivendico l’identità, per me è importante: ognuno dovrebbe portare la propria cosa, non inseguire strategie.
Un'altra frecciatina è: "Le canzoni per balletti hanno fatto il pieno di concerti rimodulati, annullati, senza biglietti"…
Sì, ma è ironica. Non è un dissing, è un modo per dire che forse dovremmo smettere di rincorrere queste cose.
Hai mai avuto la tentazione di "fare il botto", di esplodere oltre quello che hai raggiunto?
Così, in maniera repentina, no. Un lato di me, ovviamente, quella cosa la vorrebbe. Però la vorrei grazie a quello che faccio. Fare qualcosa in cui non credo forse potrebbe portarmi al risultato di cui parli tu, ma poi mi guarderei allo specchio e non mi piacerebbe. Spero sempre che possa succedere, ma il mio percorso è questo. Se succede con le mie cose, bene, se no, va bene lo stesso.
Parallelamente hai una seconda vita, quella di grafico, da Fibra a Marracash passando per Angelina Mango. Come convive con la musica?
Per me è sempre stata un'unica vita. Ho capito che la grafica poteva diventare qualcosa da fare davvero nella vita proprio grazie alla musica. Avevo iniziato a rappare da ragazzino, nella mia città, Foggia, con i miei amici, e banalmente serviva qualcuno che facesse le grafiche. A me quella cosa mi "strippava" un po’, mi incuriosiva, e quindi ho iniziato. Ma non avevo idea che potesse diventare un lavoro, soprattutto applicato alla musica. Era un sogno, ma non avevo esempi concreti, non conoscevo artisti o graphic designer che facessero solo quello.
Poi cosa è successo?
Poi, per fortuna — e anche per la mia testardaggine — sono riuscito a farne davvero un lavoro. I primi anni facevo tantissime copertine, anche venti al mese. Ci ho messo tanto impegno. È bello, perché l’ho detto spesso: il mio lavoro vero è quello. La musica, per me, non è mai stata un lavoro.
Sulla carta d'identità c'è "grafico".
Esatto, libero professionista. Quando lavoravo nelle agenzie pubblicitarie ero sottoposto a tanto stress, dovevo rendere conto ad altre persone, ma quella pressione riuscivo a riversarla nella musica nel modo giusto. Poi, quando ho deciso di mettermi in proprio — perché ormai facevo molte copertine di dischi — mi sono detto: "Ok, è arrivato il momento di fare anche la mia musica". Avevo paura di non riuscire più a raccontare certe sfumature, quelle di una persona "normale". Invece credo di esserci riuscito.
La creatività regola le tue giornate.
Esatto, le mie giornate ruotano comunque intorno a progetti creativi: sto al computer, lavoro su cose che attingono tutte alla stessa sfera artistica, anche se in modo diverso. Con la grafica, ovviamente, devo rispondere alle esigenze dei clienti, e questo mi tiene coi piedi per terra.
Qual è stato il primo lavoro "professionale", quello che hai considerato serio nel mondo della musica?
Allora, secondo me ce ne sono due. Forse la prima è stata la copertina de La rivincita dei buoni di Ghemon, anche se non so quanto definirla un vero "primo lavoro", perché in quel momento era un amico, quindi magari è stato più un "vabbè, dai, lo fai tu". Però è stato comunque un disco importante. La prima vera occasione, però, è stata l’avvicinamento a Fibra: prima con il mixtape Casus Belli e poi con Guerra e Pace. Da lì in poi sono arrivati praticamente quasi tutti gli altri lavori con lui.

È stato lui a cercarti?
Sì, sì, mi ha cercato lui, tramite Paola Zukar (la manager di Fibra, ndr), e da lì si è creato proprio un rapporto continuativo. Quello è stato il momento in cui ho pensato: "Ok, ho fatto la copertina di Fabri Fibra". Poi era anche una copertina molto interessante, molto attuale per quel periodo. Era un progetto bello anche a livello creativo: non era solo dire "Vabbè, ho fatto una copertina", ma c’era dietro un lavoro grafico vero. Quindi sì, sicuramente quello è stato lo starting point.
Ti chiedevo: come è cambiata, se è cambiata, l’influenza dello sviluppo e della crescita dell'urban, del rap e della trap sull’idea grafica in generale? Anche per artisti non rap, non urban, ma pop.
Secondo me tantissimo. Se pensi all’estetica che ha portato Kanye West — o meglio, Virgil Abloh, con tutto il suo lavoro da Watch the Throne in poi – ci sono stati dei creativi americani che hanno davvero fissato uno standard visivo. Ed è uno standard che, se ci pensi, ci portiamo ancora oggi. Non solo nel rap: tanti artisti pop ne sono stati influenzati, anche nella musica stessa. L'urban, a un certo punto, ha proprio preso il posto del pop, anche a livello estetico.
A volte non si pensa che questa influenza sia così profonda, anche a livello di stile, di copertine, di immaginario visivo.
Sì, è vero. È un processo un po’ più lento, meno evidente, ma se guardi le copertine dei primi anni 2000 e poi quelle del 2010-2015, si vede chiaramente il cambio di passo. Anche banalmente il bollino "Parental Advisory": non era così comune nel pop, mentre oggi lo trovi ovunque.
Quello che era un simbolo di censura è diventato…
…quasi un marchio di "nobiltà".