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Kokoroko: “Siamo grati per Abusey Junction ma non la ripeteremo, facciamo musica che ci rappresenti nel presente”

I Kokoroko raccontano dieci anni di vita: dal live allo studio, tra jazz, Afrobeat e libertà creativa, senza inseguire generi né perfezione, lasciando parlare la musica. La band sarà a Napoli il 18 dicembre.
A cura di Francesco Raiola
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I Kokoroko
I Kokoroko

Da qualche anno la Gran Bretagna sta esportando nel mondo una nuova onda jazz, che si abbevera nell'Afrobeat, nel funk, fusion, esplorando suoni che stanno diventando uno standard. Una scena che nacque attorno alla compilation We Out Here che racchiudeva una serie di artisti che oggi rappresentano uno dei movimenti più energici e vivaci al mondo. I Kokoroko fanno parte di questa scena – composta da artisti come Shabaka Hutchings, fondatore di band come Sons of Kemet, the Comet is Coming e Shabaka and the Ancestors, Nubya Garcia e i vincitori del Mercury Prize 2023, gli Ezra Collective. I Kokoroko – il cui ultimo album si intitola "Tuff Times Never Last" – erano in quel disco con "Abusey Junction" canzone da oltre 80 milioni di stream. Il 18 settembre suoneranno a Rotonda Diaz a Napoli per il primo evento di "Napoli città della musica" – promosso dal Comune – in cui l'Afrobeat si mescolerà col napoletano e la band inglese sarà aperta dagli Psyché. Il secondo sarà il 29 dicembre al Palavesuvio di Ponticelli (NA), a partire dalle ore 20.00 e sarà un omaggio a James Senese. Abbiamo parlato con Sheila Maurice-Gray una delle bandleader di questo progetto che è cresciuto esponenzialmente in questi anni: dalla nascita della band, al successo mondiale.

Se non sbaglio, avete iniziato come live band prima di entrare in studio. Cosa vi ha portato a diventare quello che siete oggi?

Sì, abbiamo iniziato come live band. Non ricordo l’anno esatto, ma dovrebbe essere stato intorno al 2015, quindi circa dieci anni fa. All’inizio suonavamo molte cover, come quelli di Fela Kuti, in generale soprattutto brani classici provenienti dal continente africano: African highlife, jazz sudafricano, principalmente musica dell’Africa occidentale. Col tempo abbiamo iniziato a scrivere musica nostra e quel modo di suonare dal vivo ha sicuramente influenzato, per molto tempo, il nostro modo di comporre e credo che lo faccia ancora oggi. A un certo punto ho sentito il desiderio di esplorare un suono più prodotto.

E a quel punto cosa è successo?

La persona con cui lavoravo allora mi ha suggerito un produttore: Miles James. La prima volta che abbiamo lavorato con lui è stato sul brano "Baba Ayoola". Da lì abbiamo iniziato a esplorare i confini di come registrare e creare musica, e lo stiamo ancora facendo. È entusiasmante, perché sembra di fare musica per la prima volta, scoprendo continuamente nuove prospettive.

Tuff Times Never Last è un album molto bello, che mi pare morbido, sembra evitare certe spigolature. Come è nato?

È interessante, perché per me l’album è in realtà piuttosto ruvido. Non penso che sia perfetto in alcun modo. Forse ci sono momenti più morbidi, come in "My Father in Heaven", ma anche lì sento imperfezioni ovunque, ed è proprio questo che amo del fare musica. Creare musica è come dipingere un quadro: ci sono tantissime transizioni e tanti momenti in cui potresti decidere che l’opera è finita. Ognuno traccia quella linea in modo diverso. Noi preferiamo quando restano ancora alcune asperità.

Ho letto che avete registrato parte dell'album quasi completamente isolati dal mondo. Qual è l’equilibrio tra silenzio e caos nel vostro processo creativo?

La parte principale della registrazione è avvenuta a Middle Farm, nel Devon, in piena campagna. È una zona molto bella dell’Inghilterra e siamo rimasti piuttosto isolati per circa un mese. È stato incredibile potersi concentrare senza distrazioni. Quando vivi e lavori in luoghi diversi, anche gli spostamenti possono influenzare il flusso creativo. Essere in un unico posto, svegliarsi e andare subito in studio, rende tutto molto più fluido. Detto questo, non è stato fatto tutto in isolamento.

E com'è cambiato il modo di lavorare?

Dopo quel periodo abbiamo lavorato anche individualmente. Io ho registrato da sola molte voci e parti di fiati, e alcuni elementi sono stati poi ri-registrati con Miles nel suo studio. Quindi il nucleo dell’album è nato in isolamento, ma molto è arrivato dopo, attraverso il lavoro individuale nei nostri studi e in quelli di Miles.

Esiste una gerarchia nel gruppo? Chi ha l’ultima parola su un brano?

C’è sempre una struttura, ma non la definirei una gerarchia. Abbiamo dei band leader, io e Onome (Edgeworth, ndr), e prendiamo le decisioni finali, ma cerchiamo di essere il più diplomatici possibile. Ci sono conversazioni continue e compromessi costanti. A volte a qualcuno non piace qualcosa, altre volte siamo noi a non essere d’accordo. È un dialogo continuo, non un insieme di regole rigide. Quella tensione e quel rilascio sono una parte fondamentale del creare qualcosa di nuovo. Spesso qualcuno porta un'idea già abbastanza formata, altre volte è solo uno spunto che poi tutti sviluppano insieme in qualcosa di più grande. Non sai mai davvero quale sarà il risultato finale finché la musica non è conclusa. In questo senso, la gerarchia non esiste davvero: alla fine è la musica ad avere l’ultima parola.

Questa scena ha raggiunto un riconoscimento internazionale. Secondo te, cosa colpisce le persone quando ascoltano la vostra musica in giro per il mondo?

È una domanda difficile. Personalmente, non credo di comprendere fino in fondo l’impatto che la musica ha. Cerco di prendere un po’ le distanze, perché a volte è surreale rendersi conto che qualcuno possa dire: "Questa musica mi ha colpito in questo modo", o che abbia avuto un impatto positivo sulla sua vita. Eppure, nel tempo, la risposta che riceviamo continuamente è proprio questa: “Amiamo la vostra musica, mi ha fatto sentire così, mi ha fatto sentire cosà”. Ed è bellissimo. Devo dire che oggi più che mai, con questo album, stiamo ricevendo un tipo diverso di complimenti.

Quali sono quelli che ti fanno più piacere?

Quando ci dicono: "Wow, avete fatto tanta strada", oppure "qualunque cosa abbiate fatto, sembra che finalmente siate arrivati". Questo, per me, è il complimento più grande. La sensazione è che stiamo davvero raccogliendo i frutti di tutto il lavoro fatto.

Cosa ha rappresentato la compilation We Out Here per il movimento?

All’epoca nessuno lo vedeva davvero come un movimento. Eravamo semplicemente un gruppo di amici. Molti di noi nella compilation sono cresciuti insieme: conosco alcune di quelle persone da quando avevo quattordici anni. Sembrava naturale creare qualcosa che rappresentasse quel momento del nostro percorso. Ricordo che Emily della Brownswood mi scrisse chiedendomi se volevo far parte della compilation. Accettai senza pensarci troppo. Shabaka la stava curando e quando registrammo "Abusey Junction" fu un enorme complimento sentirgli dire che non c’era nulla da aggiungere perché il brano suonava già benissimo. È un momento che non dimenticherò mai.

A proposito di "Abusey Junction", com’è avere un brano così nel vostro catalogo? Quanto siete cambiati da allora?

Prima di tutto, siamo estremamente grati per il supporto che quel brano ha ricevuto. Quando è uscito, qualcuno della band ci disse di controllare YouTube, e aveva già raggiunto un milione di visualizzazioni. Continuava a crescere e non riuscivamo a crederci, soprattutto perché avevamo registrato quel pezzo in meno di dieci minuti. È qualcosa che ci è successo davvero, e non c’è una spiegazione precisa. Abbiamo cercato di non sentirci sotto pressione per replicare quel momento. Non credo che faremo di nuovo una canzone come quella. Cerchiamo sempre di fare musica che rappresenti chi siamo nel presente. Quest’anno abbiamo pubblicato un album fortemente incentrato su groove two-step, ma chissà, tra un paio d’anni potremmo anche pubblicare un disco rock o punk rock. Voglio avere la libertà di scrivere ciò che desidero, senza essere costretta dentro un'unica etichetta o in un solo genere.

In effetti avete contribuito a creare qualcosa che trascende i generi pur restando riconoscibile. Com’è stato questo percorso?

Penso che, se lo chiedi a molti artisti, emerga spesso la stessa cosa. Ricordo di aver visto un’intervista a Bilal in cui si diceva che le persone tendono a pensare che ciò che fanno sia qualcosa di completamente nuovo, magari addirittura un nuovo genere. All’epoca, quando quegli artisti erano attivi, la loro musica veniva effettivamente percepita come qualcosa di nuovo, come un nuovo filone. Ma quando ascolto quella musica oggi, a me non sembra poi così nuova. Credo piuttosto che fosse l’interpretazione di una generazione della musica che probabilmente ascoltavano i loro genitori. Lo stesso vale per i giovani di oggi.

Ovvero?

Scoprono artisti e suoni di cui magari io posso dire "questa musica la ascoltavo già da adolescente" e successo a me quando ho detto a mia madre che ascoltavo Fela Kuti. È naturale che la loro interpretazione sia diversa dalla mia, perché sono cresciuti esposti a molti altri generi e influenze. È così che vedo Kokoroko: essenzialmente un mixtape, o una sorta di compilation di tutte le canzoni e di tutti i generi che amiamo, riuniti in un unico progetto. Probabilmente è per questo che suona diverso, unico o come se appartenesse a un genere a sé. Ma, onestamente, non credo che lo sia davvero: è semplicemente la nostra interpretazione.

Quali suoni e artisti ti hanno influenzato nel corso degli anni?

Direi che il jazz ha avuto un’enorme influenza su di me, a livello personale. Ho iniziato come trombettista e ciò che mi ha spinto a suonare la tromba è stato proprio il jazz. È quindi senza dubbio una componente fondamentale della mia musica. Quando ascolti artisti come Ebo Taylor o Fela Kuti, l’improvvisazione jazz è una presenza fortissima: è qualcosa da cui non si può davvero sfuggire. Ed è una cosa bellissima di per sé.

Oltre al jazz?

Accanto al jazz direi che un’altra grande influenza è l’Afrobeat, insieme all’highlife. Aggiungerei anche che, durante la fase di creazione della musica, ascoltavamo molta Afro-disco: in particolare Steve Monite. C’è un suo brano, "Only You", che adoriamo, ripubblicato in una nuova edizione da Frank Ocean. Direi quindi molta Afro-disco degli anni ’80 e ’90, ma anche tanto hip hop. E, per quanto mi riguarda, una figura fondamentale è Donald Byrd, soprattutto il periodo degli anni ’80. Molti brani di quell’epoca — non so se conosci il gruppo Blackbirds — hanno questa struttura in cui l’intero ensemble canta all’unisono, mentre i fiati si muovono con leggerezza, quasi "giocando": una musica elegante, morbida, che adoro. Anche Freddie Hubbard ha attraversato una fase simile nella sua carriera. E, per continuare questo percorso, direi che un’altra influenza enorme è Roy Hargrove, in particolare il progetto The RH Factor.

Crescere a Londra come ha influenzato il tuo gusto musicale?

Molti di noi nella band sono cresciuti in chiesa, e per me è stato così. Ascoltavo molta musica gospel, soprattutto degli anni Ottanta e Novanta. Non mi era permesso ascoltare musica pop, quindi quello era il mio riferimento principale. Quando ho iniziato a suonare la tromba alle scuole superiori, ho cominciato ad ascoltare jazz: Miles Davis, Horace Silver. Dai quattordici anni in poi ho frequentato una summer school chiamata Kinetika Bloco, dove sono stata esposta a musica da tutto il mondo: Brasile, Sudafrica, artisti come Abdullah Ibrahim e Hugh Masekela, oltre al funk, come Parliament e Funkadelic, quindi George Clinton.

Il 29 dicembre, al Palavesuvio di Ponticelli (NA), a partire dalle ore 20.00, va anche in scena Neapolitan Power – Dalle origini al futuro, una grande festa collettiva dedicata a James Senese e alla storia del Neapolitan Power, tra interpreti storici e nuove voci della scena contemporanea. Si alterneranno sul palco artisti come Eugenio Bennato, Tony Esposito, Teresa De Sio, Gianni Lamagna, Raiz, Roberto Colella, Dario Sansone, Fabiana Martone, Gabriele Esposito, Tommaso Primo, Mauro Gioia e Napoleone.

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