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Il fondamento di genere della violenza contro le donne: il patriarcato torna nel linguaggio politico

La violenza contro le donne è parte di un conflitto politico, sociale e culturale che non permette più la neutralità che il patriarcato ha difeso fino a oggi.
A cura di Redazione Cultura
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Manifestazione transfemminista (LaPresse)
Manifestazione transfemminista (LaPresse)

A ridosso della celebrazione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2023, a pochi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, per voce della sorella Elena una parola si è imposta nel dibattito pubblico: patriarcato. Molti opinionisti, politici e persino qualche storico ha storto il naso, arrivando a insultare Elena e/o a tacciarla di ideologismo. Le strade invase dalle ragazze e dai ragazzi, non solo loro e non solo a Padova, la esibiscono nei cartelli, sui muri, la urlano. La violenza che ha colpito Giulia, già non più ultima tra tante, non è – affermano – frutto di un raptus, non è agita da un bravo ragazzo inspiegabilmente diventato mostro, da qualcuno di straordinario, non è un’emergenza, non è la conseguenza di un amore malato. Le autorità e le istituzioni invitano a celebrare minuti di silenzio, le scuole, le università, le piazze rompono i ranghi, fanno rumore, sparano fumogeni, accendono fuochi.

La frattura è evidente, evidente perché si consuma nel momento più alto del dolore, quando la scena si vorrebbe dominata dalla compostezza politica. Eppure è una frattura di lungo periodo, l’unica novità di queste settimane – forse – è proprio che la categoria di “patriarcato”, rimossa dal linguaggio politico mainstream per diversi decenni, è tornata di gran moda. A quelli e quelle che sono proprio a disagio con questa parola, per loro specchio di tempi arcaici e tramontati, in odore di “veterofemminismo” e ideologismo, inadeguata a rappresentare società ben più moderne, dinamiche ed emancipate, consiglio vivamente di prendersela con chi in questi anni ha colpo su colpo stravolto, svalorizzato e depoliticizzato altre parole e categorie messe a punto – forse più eleganti? – per raccontare la storia del conflitto di potere tra uomini e donne, tra culture della sessualità, della famiglia, delle relazioni: genere, prima di tutto.

Guardiamo alla sostanza delle questioni, allora. Non è un problema di categorie e termini usati: potremmo dire patriarcato, genere, potere, guerra dei sessi – poco importa –, semplicemente il re è nudo: la violenza contro le donne, i femminicidi, gli acidi lanciati, gli stupri di gruppo sono parte di un conflitto politico, sociale, culturale di lungo periodo, e che non permette neutralità, intorno alla  distribuzione e all’esercizio del potere. L’amore, la follia, la passione c’entrano veramente poco in questa storia e proprio la ricerca storica degli ultimi decenni, la storia delle donne e di genere, lo ha raccontato ormai compiutamente: la violenza contro le donne è strettamente correlata alla disuguaglianza di genere; ne è effetto e allo stesso tempo, come attesta la Convenzione di Istanbul del 2011, strumento di reiterazione.

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La violenza discende nella storia dalla considerazione delle donne come esseri che devono sottostare all’autorità maschile, anche costrette con la forza, in famiglia e nella società (vedi la lunga storia dello ius corrigendi o della figura del capofamiglia); deriva dalla considerazione dei corpi e della sessualità femminili come un bene e una proprietà maschile, o come qualcosa di cui gli uomini possono disporre a piacimento, al limite negoziandone le condizioni con altri uomini (vedi la lunga durata del reato di stupro come un delitto non contro la persona, ma anche di istituti giuridici quali il delitto d’onore o il matrimonio riparatore). La violenza, tuttavia, è anche favorita dal mancato riconoscimento – economico e sociale – del lavoro femminile, dall’esclusione secolare delle donne dai diritti di proprietà, dalla sfera del politico: costrette fino a ben oltre la nascita della Repubblica per legge al regime della disparità salariale, al carico del lavoro di gestione del quotidiano e di cura, all’esclusione da molte professioni e incarichi, le donne hanno sperimentato storicamente regimi di sfruttamento, dipendenza economica e ricattabilità, anche sessuale, da parte dei mariti, partner, datori di lavoro, di larga scala.

La violenza di genere, allora, è un effetto di questi squilibri, ma è anche uno strumento per rinnovarli. Proprio per questo è qualcosa che lega inesorabilmente l’atto (del) singolo, il fatto specifico alla dimensione del collettivo, all’ordine sociale. "Per ogni donna colpita e offesa siamo tutte parte lesa", dicevano le femministe degli anni Settanta. Dietro ogni uomo che agisce violenza di genere contro una donna, una persona trans, un gay o una lesbica, perché non riesce a possederla del tutto, non ne sopporta il successo, il rifiuto, l’autonomia, perché si sente minacciato dal suo corpo o dalle sue scelte sessuali, c’è una secolare cultura di legittimazione, di complicità interessata, Che venga definita patriarcale o di genere la sostanza non cambia. Tanto più che, guarda caso, entrambi i termini sono stati bersaglio negli ultimi decenni di campagne di comunicazione accanite dirette a invisibilizzarne i riferimenti concreti ai rapporti sociali, a favore dell’accusa di essere puramente ideologiche.

di Laura Schettini, ricercatrice in Storia contemporanea presso l’Università di Padova, dove insegna anche Storia delle donne e di genere. Il suo nuovo libro "L'ideologia gender è pericolosa" è appena stato pubblicato dagli Editori Laterza.

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