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Gipi: “Pensavo di smetterla col fumetto. Lo Strega? Non me ne frega nulla”

Gipi è uno dei nostri principali fumettisti, Fanpage lo ha incontrato a 10 anni dall’uscita di Unastoria, per parlare di quel libro, del prossimo, Stacy, e di sé.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Nel 2013, in libreria e in fumetteria, arrivava Unastoria di Gipi, un fumetto che ha influenzato – poco o tanto non importa – l’editoria italiana. Prima di tutto, perché è stato il primo fumetto a essere candidato al Premio Strega. E poi perché ha permesso a Gipi di seguire una terza via: non totalmente dissimile da quella percorsa con La mia vita disegnata male, ma abbastanza nuova da permettergli di ritrovare la passione – e l’ossessione – per il racconto. Quando ne parla, Gipi lo fa con una consapevolezza diversa. Dice di essere cambiato, e non solo perché sono passati dieci anni. È cambiato perché ha vissuto e visto altre cose. Negli ultimi mesi è diventato il presidente di una squadra di calcio, il Real Zigán, e ha conosciuto un gruppo di ragazzi rom che hanno stravolto la sua quotidianità. Con loro, ha girato il video di Severodoneskt di Manuel Agnelli.

Su Instagram, alcuni giorni fa, ha annunciato di aver finito il suo nuovo fumetto, Stacy. Ma, rivela Gipi, è ancora indeciso su cosa fare. In quest’intervista, ci sono la sua onestà e la sua intelligenza. C’è la sua precisione nello scegliere le parole, e nel metterle in fila. Parla delle contraddizioni che affrontiamo oggi, del suo mestiere, dell’amore che prova per sua moglie e del potere che – a volte, non sempre – i titoli possono avere sulle storie che accompagnano. Tutto, alla fine, si riduce a questo. Alla voglia di raccontare.

Il 4 agosto, con Coconino Press, arriverà una nuova edizione di Unastoria. Cartonata, da collezione. Ricordi com’è nato questo fumetto?
Erano cinque anni che non riuscivo a fare una cosa a fumetti. Ero in blocco totale. Lavoravo con il cinema, con il teatro, ma il fumetto sembrava una cosa finita. Sinceramente, mentre giravo i film non mi importava molto. Stupidamente pensavo che il fumetto fosse stato una fase della mia vita, qualcosa che era servito per arrivare a un altro mondo, più luccicante, ricco e dorato.

E poi?
E poi non disegnando ha preso a bruciarmi il culo ed ero molto triste. Ricordo che una sera proposi alla mia fidanzata del tempo di vedere 8 e mezzo di Fellini.

Era la prima volta che lo vedevi?
No, no. L’avevo già visto quando ero più giovane, da ragazzo, e mi era parso curioso, sì, ma non avevo capito un cazzo.

Questa volta, invece, come è andata?
Più o meno negli ultimi cinque ho cominciato a piangere, si dice a Pisa, “come una vite tagliata”. Piangevo a dirotto.

Perché?
Perché il problema del mio blocco dipendeva anche da questo: non volevo accettarmi come raccontatore di storie a fumetti e, allo stesso tempo, non volevo ritrovarmi a fare la solita roba fatta ne La mia vita disegnata male, il solito racconto autobiografico del cazzo… E un po’, come sai, soffro il mio stile. Non sono mai contento. Per cinque anni avevo lottato per diventare qualcos’altro, per non farmi condizionare dal mini successo di quel libro. Nella testa sentivo le voci di un pubblico immaginario. Voci che mi spingevano a rifare cose già fatte che sapevo funzionare. Io volevo cambiare, essere libero. Ma non potevo essere un’altra persona.

No?
No, non potevo. E durante il finale di 8 e mezzo, quando c’è l’accettazione assoluta di Fellini, dove lui dice: io sono questo, faccio del male a quelli attorno a me, racconto le vite di tutti, ho capito.

Che cosa?
Che ero uno che raccontastorie e che non potevo essere altro. Che non c’era una via di fuga. E questa consapevolezza mi ha spezzato. Ho cominciato a piangere, come ti dicevo, e non riuscivo a smettere. Ho detto alla mia compagna che dovevo scendere, andare al bancomat perché non avevo soldi e che dovevo comprare le sigarette. Allora sono andato, e piangevo; ho preso i soldi e continuavo a piangere; ho comprato le sigarette, e piangevo ancora. Me ne sono accesa una e piangevo, sono tornato a casa e piangevo. Poi, per fortuna, ho smesso. Era una cosa patetica.

E che cosa è successo a quel punto?
Ricordo che il giorno dopo sono andato nel mio studio. A sinistra c’era il tavolo da disegno, a destra c’era una scrivania con un computer per giocare: a quei tempi ero fissato con World of Warcraft. E in quei cinque anni, quando salivo su, andavo sempre a giocare. Sempre. E quindi andavo a destra. Quella mattina, invece, le mie gambe e il mio culo, da soli, ci tengo a precisarlo, mi hanno portato a sinistra. Allora mi sono seduto e ho iniziato a lavorare.

Che pensiero avevi?
Che dovevo fare una roba incomprensibile.

Perché?
Avevo accettato di dover raccontare i cazzi miei come facevo in quel periodo, ma non volevo essere ruffiano. Non volevo riprendere i modelli de La mia vita disegnata male, e riusarli. E lo sapevo, te lo ripeto, che quei modelli funzionavano. Ma non mi piaceva l’idea di un seguito.

E quindi?
Quindi l’unico modo che avevo per liberarmi da tutte queste voci, dalle critiche positive, dal piccolo entusiasmo del pubblico e dagli inviti in tv, era essere inaccessibile. Ero convinto di questo. Pensa quanto non ho mai capito un cazzo (ride, ndr). Ero sicuro di star facendo un libro invalicabile come un muro. Contemporaneamente, però, è successa un’altra cosa.

Dimmi.
Mi sono ricordato che il mio lavoro mi piaceva. E che mi piaceva raccontare le mie storie a fumetti. Avevo bisogno di liberarmi, e Unastoria è stato questo. Una liberazione. Un modo per riappropriami della gioia di questo mestiere.

E l’hai ritrovata, poi, questa gioia?
Durante la lavorazione di Unastoria, sì, sono stato bene con me stesso e quello che facevo. La pittura veniva in modo naturale. Allo stesso tempo, però, ero sempre malato e, da bravo ipocondriaco lagnoso, ero convinto che sarei andato al Creatore di lì a poco. Pensa che l’ho firmato così: “Unastoria, Gipi, 1963-2013”. Chiaramente non sono morto, ma mi sono comunque detto che un certo tipo di racconto doveva finire. Il racconto autobiografico, intendo.  E infatti ho fatto La terra dei figli. Poi, però, ho avuto una ricaduta, come si hanno ricadute con il fumo e le sigarette, e ho fatto Momenti straordinari con applausi finti.

In questa ricaduta, è tornato anche Silvano Landi: in Unastoria è uno scrittore, in Momenti straordinari con applausi finti un comico.
Quando ho fatto Momenti straordinari ero in crisi per altri motivi, molto più personali. E quando sto così le provo tutte. Prima cammino, suono le tastiere, incontro gli amici; provo a distrarmi. Quando nulla funziona passo alle storie. Con S., per dirti, è andata bene. Anche in questo caso ho cercato di rimanere su una narrazione completamente pazza, e mi è venuto in mente quel nome lì, Silvano Landi, perché il personaggio in qualche modo mi somigliava.

Questi due Silvano Landi, però, sono anche profondamente diversi.
Forse, ecco, non sono lo stesso personaggio ma vivono nello stesso brodo primordiale. E poi, ripeto… non lo so… Non so spiegare più di tanto quello che faccio. Quando do consigli ai giovani autori, dico sempre di assicurarsi di sapere bene di che cosa parla la storia che vogliono raccontare. Ma la verità è che io a volte non lo so. Lo capisco con il tempo, e solo con il tempo ho capito qual era il significato nascosto di Unastoria.

E qual era?
Unastoria è arrivato in un momento particolare, quando ho saputo di non poter avere figli. Sinceramente, lì per lì, pensavo che non me ne fregasse un cazzo. E invece, poi, le cose hanno iniziato a mettersi male. Anche per questo Unastoria e Momenti straordinari sono legati: in Unastoria questo tema è nascosto, in Momenti straordinari è palese. Mentre lavoravo a Unastoria, continuavo a chiedermi la stessa cosa: che cosa ho fatto di male. Quando realizzi che il cosmo, la natura, Dio, chiamalo come vuoi, non ha bisogno di te, che sei biologicamente inutile ai fini della specie, resti senza parola. Quella che ti urla dentro, nelle orecchie, è una voce primordiale e antica, completamente indipendente dalla cultura (che invece mi diceva un’altra cosa, che non c’era alcun problema nel non poter avere figli biologici). In Unastoria ho tradotto questa sensazione nel disegno ricorrente di un albero secco.

Quante volte l’hai disegnato?
Tante.

Perché? Che cosa stavi cercando?
Volevo trovare una qualche grazia nelle forme di quell’albero. Nonostante, appunto, fosse secco. Volevo dargli un motivo per esistere e una bellezza intrinseca. Sia chiaro: non penso di avere una bellezza intrinseca, ci mancherebbe, ma avevo bisogno di trovare comunque un minimo di senso per restare al mondo. Un principio di armonia.

Le due storie, quella nel presente di Landi e quella del suo antenato durante la prima guerra mondiale, sono venute fuori nello stesso momento?
Sì, non ho nemmeno dovuto pensarci. In quel periodo, leggevo tantissimi libri sull’argomento: sull’uomo in natura e sulla nostra specie. Un cane, quando nasce, fa il cane. Adesso, per carità, tendiamo a umanizzare qualunque cosa. Ma un cane è un cane; difficilmente vorrà fare altro che il cane. Le sue necessità saranno correre, mangiare, dormire, giocare, riprodursi. Noi uomini, invece, siamo gli unici ad avere di fronte a noi un’infinità di strade possibili. E questa roba è spaventosa. È quello che fa nascere la paura. Ed è questo che mi interessava. Riflettendo su questi temi ero finito nella squadra di chi sostiene che la natura è solo caos.

Nell’antenato di Landi viene fuori l’istinto bestiale della sopravvivenza.
Era la cosa che mi affascinava di più, questa. Quello che siamo pronti a fare per sopravvivere. E anche questo, poi, l’ho sviluppato in modo più chiaro in Momenti straordinari con applausi finti. Restiamo esseri umani, nonostante questa bestialità. Dentro di noi, questa caratteristica c’è, resiste, palpita. Quando ho saputo di non poter avere figli, ho reagito così. Istintivamente. Con quest’urlo interno, profondissimo e antico. So, però, che è la stessa voce che alcuni reduci di guerra sentono quando il loro compagno muore; è la voce che sussurra nelle loro orecchie: "È toccato a lui, non a te, che fortuna". E poi sono costretti a convivere con la vergogna per il resto della loro esistenza.

Di chi è, secondo te, questa voce?
Non posso dirlo con certezza, per me sono i geni. Credo che fosse la loro voce quella che ho sentito quando ho scoperto di non poter avere figli.

Come hai vissuto il successo di Unastoria? È stato il primo fumetto italiano a essere candidato al Premio Strega.
Quella roba lì puoi considerarla successo solo se per te sono importanti i riconoscimenti dati da persone che non hai mai incontrato e di cui non ti interessa minimamente. Per me il successo è un’altra cosa.

Per esempio?
Sapere che mia moglie o il mio migliore amico hanno letto una mia storia e si sono commossi sul finale. Sapere, invece, che un ente, un’organizzazione, di cui non me ne fotte un cazzo, decide di mettermi nella sua competizione come una sorta di mascotte, perché al tempo faceva figo mostrarsi aperti nei confronti dei fumetti, non mi interessa. Puoi scriverlo proprio così, anche se sembro antipatico. Intendiamoci: sono stati tutti molto gentili e disponibili con me, ma ero chiaramente fuori posto. Io ci stavo: zitto, buono e sorridente. Perché quella candidatura mi faceva vendere un sacco di copie e io con i libri ci campo.

Ci sono state anche delle polemiche per la decisione di includere un fumetto tra i candidati allo Strega.
Se ti ricordi, evitai di dire qualunque cosa al tempo. Perché volevo che il mio libro venisse letto. Io, però, sono sempre stato convinto che Unastoria non dovesse essere candidato al Premio Strega. Ho detto "non". Ripeto.

Perché?
Molto semplice: sono due mezzi differenti. Fino a qualche anno fa, i fumettisti e il mondo del fumetto soffrivano di un certo senso di inferiorità nei confronti della letteratura e del cinema. Forse ora le cose sono diverse; forse le distanze si sono ridotte, non lo so. Però al tempo era così, e quindi molti parlavano della mia candidatura al Premio Strega come di una nobilitazione del fumetto.

Tu che cosa pensavi?
Io non ho mai pensato che il fumetto avesse bisogno di essere nobilitato, privandolo della sua parte migliore, i disegni. Non ho mai pensato che il fumetto fosse inferiore alla letteratura. È un mezzo differente, che se usato bene ha la sua potenza. Ci sono dei fumetti che fanno cacare, anche questo è vero. Non c’è, però, nessuna scala di valori. Esiste solo se lo vuoi, e lo vuoi solo se sei un provinciale, se vedi lo Strega come un punto di arrivo.

E tu, invece? Che persona sei?
Io sono un ultra-provinciale, figurati. Però di quella cosa lì non me ne fotteva niente.

Niente?
Niente, ripeto. Mia mamma mi diceva sempre che il mio più grande difetto è non avere ambizione. E poi avevo appena conosciuto Chiara, e la sera che non entrai nella cinquina dei finalisti non pensavo ad altro.

Una tavola di Unastoria
Una tavola di Unastoria

Dimmi di più. Che cosa ricordi di quella sera?
Eravamo in questo appartamento meraviglioso, stupendo, con un parterre quasi felliniano. C’era un sacco di gente. Un sacco. Ricordo che faceva molto caldo, qualcuno svenne pure, e ricordo che passai parte della serata in compagnia di questa signora piccolissima, anziana, curva, appoggiata a un bastone. Era convinta che io fossi Scurati.

E tu che cosa hai fatto?
Io le rispondevo, facendo finta di essere Scurati. Non ho nulla contro di lui, né contro quella signora. Sono stati tutti carini, lo ripeto. E io non volevo darle un dispiacere. Ricordo pure che c’era Domenico Procacci, il mio editore, che teneva il conto dei voti. E io gli dicevo: "Smettila, Dome’, che ti frega". Io sono coglione, ma non così coglione: sapevo di non poter andare avanti nelle votazioni. E quindi aspettavo.

Cosa?
Di essere escluso per poter andare al mio primo appuntamento con Chiara. Non vedevo l’ora, credimi, di scendere giù e di veder arrivare la donna più bella del mondo nella sua Renault 4, per andare in giro per Roma insieme, mangiare qualcosa, bere e sperare di poterla baciare. Non me ne fregava niente, della cinquina. Che poi era proprio impossibile, entrarci.

Dici? Non avevi nemmeno una possibilità di farcela?
Ma no, figurati. Volevano solo dare la sensazione di essere pronti a svecchiarsi. Però figurati: se mi vogliono richiamare, nonostante tutte le cose che ho detto, io ci vado volentieri. Ho un altro libro che sta per uscire…

Ah, sta per uscire Stacy? È finito?
È finito. E credo che lo farò uscire. Anche se sono molto combattuto.

Da cosa?
Dal non essere certo che sia un buon libro, principalmente.

Questo, però, è un dubbio che hai sempre.
Sì, ma questo è un libro particolare. Perché è davvero fuori di testa. Ho lavorato utilizzando solo cattivi sentimenti. Non ho usato tenerezza, malinconia, nostalgia, amore, amicizia… Ho usato solo il rancore e la rabbia. È un esperimento, se vuoi. Non sono sicuro si possa fare un buon libro così. Avendo solo emozioni negative come fondamenta. Ma, ecco, tecnicamente credo sia abbastanza figo. E me lo dico da solo. Ci sono dei buoni dialoghi e delle scene che mi fanno morire dal ridere.

È in bianco e nero?
Sì, solo in bianco e nero. È un libro cattivo. Non c’era spazio per le dolcezze del colore.

Quanto è lungo?
Intorno alle duecentocinquanta pagine. Negli ultimi tempi, avevo messo il turbo: ne facevo almeno cinque al giorno. L’ho finito in due anni, facendo anche altro nel frattempo. E in due anni la mia testa è cambiata. Ho iniziato che ero pieno di rabbia. Ma poi sono guarito. E la stessa curva di guarigione l’ho data al protagonista della storia. Stacy parte incazzatissimo e poi diventa quasi delicato. O meglio, finge di diventarlo. Finge uno "scurdammoce ‘o passato", come dite voi a Napoli.

Perché hai chiamato Unastoria così?
Io i titoli dei libri li trovo quando scansiono la prima pagina, la passo al computer, la ripulisco e creo una cartella per salvarla. Quando ho fatto Unastoria, non avevo la benché minima idea di che cosa stessi facendo. Sapevo solo una cosa: che era una storia. E quindi ho chiamato la cartella in questo modo, Unastoria. Lo so, non è un grande aneddoto, ma è andata così.

Il titolo può avere effetti sul racconto?
In un certo senso sì. Pensa a Stacy. Questo nome è ovunque nel libro. Torna puntualmente, in modo ciclico e ossessivo. È pieno di frontespizi con il nome Stacy, e abbonda nei dialoghi e nella voce narrante. Diventa una litania. Quindi sì, il nome può essere determinante. In vecchiaia credo sempre meno alla casualità. Mi sembra di fare solo le cose che ero destinato a fare, non altro. Come se non scegliessi niente. Pure il tempo mi sembra un elemento ciclico, e in qualche modo, non so dirti quale, è come se avessi la sensazione che il futuro sia già lì, steso, e ogni tanto per quel che riguarda il lavoro – solo il lavoro altrimenti giocherei al Superenalotto – mi sembra di vederne dei frammenti. Tornando ai titoli: non mi sono mai scervellato per trovarne di accattivanti. Mai. Credo che faccia parte della mia sofisticata strategia per rasentare sempre il fallimento. Non è granché, come titolo, “Unastoria”.

Però c’è stata l’intuizione di scriverlo senza spazi, tutto attaccato.
Quella fu un'intuizione della mia ex. Era una grafica molto brava.

Comunque i tuoi sono titoli che funzionano.
Non saprei. Io conosco solo due modi di lavorare. Uno è: scegliere le parole più efficaci. L’altro è: utilizzare le uniche che mi sembrano possibili. E io scelgo sempre questo secondo metodo. Lo so che sembro matto, ma io la vedo così. Quando ho scritto l’ultima battuta di Stacy, che per me è proprio giusta, ho pensato subito a una cosa.

Cosa?
Che era sempre stata lì. Che l’avevo già pensata, che era già dentro di me. E quando succede, provi una sensazione stupenda. Ti convinci che non sia tua. E provi anche del panico: perché magari è davvero di qualcun altro. Cerchi su Google col batticuore e poi scopri che no, ti sembra di averla già sentita solo perché è l’unica possibile.

Secondo te siamo diventati prigionieri delle parole?
Per quel che può valere la mia parola, e vale poco perché – ricorda sempre – io sono un coglione che fa fumetti, credo che il mondo di cui faccio parte, o almeno di cui facevo parte – il mondo della sinistra a trazione intellettuale – si sia un po’ bevuto il cervello con quest’idea che la realtà sia l’insieme delle parole che la definiscono. E quindi: per cambiare la realtà, devi cambiare le parole, e per aggiustare un’ingiustizia devi cancellare le parole che descrivono quell’ingiustizia. Credo che questo sia un approccio che ti puoi permettere solo se sei benestante. Perché se sei uno che non ha niente, l’oggettività della realtà ti arriva in faccia tutte le mattine. Come un camion contromano.

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