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George Orwell: 70 anni fa moriva il visionario autore di “1984”

Sono trascorsi 70 anni dalla morte di George Orwell, qualcuno in più dalla pubblicazione dei suoi successi più famosi, “La fattoria degli animali” e “1984”. Scomparso a soli quarantasei anni, Orwell è stato una delle voci più emblematiche del XX secolo: prefigurando una società non molto diversa da quella attuale e riuscendo a raccontare, in altre opere ancora troppo poco citate, quella del proprio tempo.
A cura di Federica D'Alfonso
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George Orwell muore il 21 gennaio 1950.
George Orwell muore il 21 gennaio 1950.

Il 21 gennaio 1950, a soli quarantasei anni, muore George Orwell. Lo scrittore inglese nato in Bengala, il cui vero nome era in realtà Eric Blair, ha rappresentato la voce più importante e peculiare della letteratura del XX secolo. Grazie a romanzi come “La fattoria degli animali” e “1984”, il suo nome è entrato di diritto nel novero della letteratura distopica, oltrepassandola e creando qualcosa di ancor più sconvolgente: la prefigurazione della realtà futura. Ma Orwell fu anche lucido cronista della sua epoca, in opere poco citate ma altrettanto importanti. A 70 anni dalla morte, torniamo a rileggerle.

Orwell, oltre 1984: dalla distopia alla realtà

Fotogramma tratto dal lungometraggio animato "Animal Farm" (Germania, 1955).
Fotogramma tratto dal lungometraggio animato "Animal Farm" (Germania, 1955).

La guerra per me, significava proiettili rombanti e schegge d'acciaio; soprattutto significava fango, pidocchi, fame e freddo. (da “Omaggio alla Catalogna”)

Se i grandi capolavori di “1984” e “La fattoria degli animali” hanno portato ad astrarre l’immagine di George Orwell al di là del proprio tempo, per farne una voce sempre irrimediabilmente attuale, quasi “eterna”, le altre opere dello scrittore inglese, se rilette oggi, ne restituiscono l’immagine di un lucido e attento cronista della propria contemporaneità, prima che di un visionario profeta della distopia mondiale.

È il caso di saggi come “Senza un soldo a Parigi e Londra”, primissima e dimenticata opera pubblicata da Orwell nel 1933 e uscita in Italia, per la prima volta, nel 1966, risultato di una delle esperienze più significative che lo scrittore deciderà di intraprendere ad appena venticinque anni: nel 1928, dopo il traumatico quanto breve arruolamento nella Polizia Imperiale in Birmania (di cui scriverà in “Giorni in Birmania” del 1934), quello che all’epoca è ancora conosciuto con il nome di Eric Blair si trasferisce a Parigi con l’intenzione di studiare da vicino la vita dei bassifondi delle metropoli europee. Orwell svolgerà i lavori più umili, vivendo ai margini della povertà, esperienza che continuerà anche in Inghilterra e che condenserà nel saggio pubblicato nel ’33, e nel romanzo “La strada di Wigan Pier” del 1937.

E proprio quest’anno fu significativo per un’altra grande esperienza che segnerà per sempre lo scrittore: allo scoppio della guerra civile spagnola, infatti, Orwell decide di partire e di unirsi al Partito Operaio di Unificazione Marxista contro la dittatura di Franco. Ferito da un cecchino, e deluso dall'esperienza rivoluzionaria spagnola, l‘autore lascerà la Spagna ma la racconterà, in modo lucido e commovente, in “Omaggio alla Catalogna”, pubblicato nel 1938. L’altro volto di Orwell è sicuramente quello meno conosciuto, ma è altrettanto importante anche per comprendere la produzione letteraria distopica, e per riaffermare quello che già Italo Calvino sottolineò:

Che si sia tardato ad ascoltarlo e comprenderlo non fa che provare quant'era in avanti rispetto alla coscienza dei tempi.

1984 secondo Umberto Eco: una “visione” di realtà

1984 is now

Ma quando si parla di George Orwell è quasi impossibile non citare, almeno una dozzina di volte, il suo romanzo più famoso. Con “1984”, infatti, lo scrittore inglese ha oltrepassato i confini di un genere, quello distopico, creando qualcosa di molto più grande: qualcosa che, anche oggi a distanza di settant'anni dall'uscita del libro, risuona più che profondamente attuale. Tanto attuale da entrare anche nei vocabolari come aggettivo, “orwelliano”, indicante una riflessione sul totalitarismo e sulle sue diverse manifestazioni.

Già in tempi ancora relativamente non sospetti un altro genio della letteratura aveva individuato: parliamo di Umberto Eco. Nel 1984 infatti, in coincidenza con l’arrivo della data metaforica scelta da Orwell come titolo del suo romanzo, la Mondadori pubblicò una edizione curata da Peter Davison, in cui compare una Prefazione scritta dal compianto professore di Semiotica. In quel 1984 reale Umberto Eco tornava a riflettere su quello fittizio inventato da Orwell, sottolineando a più riprese il carattere estremamente “profetico” del racconto dell’inglese:

Ed è che nel corso di quasi quattro decenni (tanti ci separano dalla pubblicazione di 1984) si facesse strada giorno per giorno l’impressione che quel libro, se da un lato parlava di ciò che era già avvenuto, dall’altro, più che parlare di ciò che sarebbe potuto accadere, parlava di ciò che stava accadendo.

Con lo straordinario acume che lo ha sempre caratterizzato, Eco sottolinea il carattere di cronaca d’attualità del libro, più che di distopia irrealizzabile: la televisione, il sistema di controllo “a circuito chiuso” a cui essa ci sottopone, il carattere panottico di una società che non più solo nelle prigioni e nelle fabbriche, ma anche nei supermercati e nei luoghi di cultura, aveva già esplicitato il suo carattere fortemente totalizzante ed alienante. Tutto questo per Umberto Eco costituisce la vera sorpresa nel leggere il romanzo che, di per sé, non propone artifici letterari inediti o tecniche narrative nuove:

L’idea che la vittima di un processo ideologico debba non solo confessare, ma pentirsi, convincersi del suo errore e amare sinceramente i suoi persecutori, identificarsi con essi (e che solo a quel punto valga la pena di ucciderla), Orwell ce la presenta come nuova, ma non è vero: è pratica costante di tutte le inquisizioni che si rispettino.

Ma Eco continua:

Eppure ad un certo punto indignazione ed energia visionaria prendono la mano all’autore e lo fanno andare al di là della “letteratura”, così che Orwell non scrive soltanto un’opera di narrativa, ma un cult book, un libro mitico. (…) Quando Winston alla fine, puzzolente di gin, piange guardando il volto del Grande Fratello, e sinceramente lo ama, ci chiediamo se anche noi non stiamo già amando (sotto chissà quale immagine) la nostra Necessità. Qui non è più in gioco (soltanto) ciò che riconosciamo di solito come “letteratura” e identifichiamo con il bello scrivere. Qui è in gioco, lo ripeto, energia visionaria. E non tutte le visioni riguardano il futuro, o l’Aldilà. (da Umberto Eco, “Orwell o dell’energia visionaria”, prefazione a 1984 di George Orwell, Mondadori, 1984)

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