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Fulminacci a Fanpage: “La mia generazione ha sdoganato il pop, non ne abbiamo più vergogna”

Si chiama Infinito +1 il nuovo album di Fulminacci che Fanpage.it ha intervistato.
A cura di Francesco Raiola
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Fulminacci (ph Filiberto Signorello)
Fulminacci (ph Filiberto Signorello)

Zitto zitto, quatto quatto, alla fine del 2023 Fulminacci ha pubblicato il suo terzo album, "Infinito +1", un lavoro che è giustamente rientrato in molte delle classifiche sui migliori album dell'anno appena passato. L'Italia aveva scoperto Filippo Uttinacci al Festival di Sanremo 2021, con un brano cantautorale, Santa Marinella, che in molti avevano apprezzato: le potenzialità del cantautore erano apparse cristalline e così l'album gli aveva dato la giusta visibilità, confermata dal secondo, "Tante care cose", che, però, col senno di poi, ci sembra di poter definire il classico album di passaggio, quello in cui Fulminacci cercava la strada, tentava, provava, e alla fine trovava evidentemente le soluzioni per quest'ultimo. Il cantautore si è un po' spogliato dai giudizi della critica e ha deciso di allargare lo spettro al pop – cosa che sa fare molto bene – senza perdere la sua attitudine cantautorale e queste due anime sono evidenti anche nella scelta dei feat, con da una parte i Pinguini Tattici Nucleari, vero fenomeno pop di questi ultimi anni, e poi Giovanni Truppi, uno dei talenti cristallini del cantautorato italiano. Intinito + 1 è un album che se anche metti su con un po' di superficialità, ti ritrovi in un attimo nel punto di non ritorno, bastano poche note ed è già troppo tardi per tornare indietro. Lo avevamo già visto con Ragù, singolo estivo, antitormentone e (auto)ironico, puntellato da "Puoi" e "Filippo Leroy" che dimostra come fare un ottimo pop, mentre l'animo ballad cantautorale arriva nell'uno-due micidiale formato da "Simile" e da "Occhi grigi", pezzo preferito da chi scrive. Fanpage.it ne ha parlato proprio con Fulminacci, che intanto ha pubblicato anche un nuovo singolo, "+1", uscito pochi giorni fa.

C’è un senso di gioco nel titolo, quanto questa dimensione è cambiata nel tempo? La musica è anche un gioco, ancora un gioco, ma soprattutto: è mai stata un gioco?

Adesso lo è di meno, nel senso che per fortuna è diventato ufficialmente il mio lavoro, perché più aggiungi tappe al tuo percorso più si ufficializza questo lavoro di natura creativa, che è sempre difficile da definire fin dal percorso di studi, e non parlo solo del musicista e del cantautore, parlo di qualunque mestiere artistico o simile. Per questo, quando le cose succedono, c'è un pubblico e ci sono delle soddisfazioni, diventa ufficiale che lo fai di mestiere senza il bisogno che ci sia un pezzo di carta che lo testimoni,.

Ora possiamo dirlo ufficialmente, insomma.

Sì, posso dire che per fortuna già da qualche anno è il mio lavoro. All'inizio, però, era un gioco, era solamente la mia passione, mentre adesso ho la fortuna di fare come lavoro quella che era la mia passione, all'inizio era proprio un modo per esprimermi e basta. Adesso il gioco è entrato a far parte della narrazione, magari è di meno, ma all'interno del disco c'ho messo il gioco proprio perché trovo molto rassicurante mantenere un rapporto saldo con l'infanzia, è una cosa che mi piace e penso che sia anche una chiave per avere uno sguardo un po' più puro sulla realtà che ci circonda.

E quando questo gioco diventa un lavoro come cambia la vita artistica, l'idea di un nuovo album, di una nuova canzone?

Nonostante sia il terzo album, è il primo che scrivo dall'inizio alla fine consapevole che questo è il mio mestiere, perché nel secondo album c'erano dei pezzi che avevo scritto prima di cominciare a fare questo lavoro. Questo comporta che oggi non solo voglio farlo, devo farlo, eppure non c'è una costrizione, non uso il verbo dovere perché qualcuno mi frusta, ma lo uso perché questa cosa è nel mio contratto discografico e quindi è anche il mio lavoro e il mio dovere. In realtà è una cosa bellissima perché ogni giorno mi ricordo quanto sono fortunato a fare ‘sto lavoro e mi sono divertito tantissimo con un po' più di consapevolezza. Quello che è cambiato è che sicuramente ho un po' più chiaro, passo dopo passo, come si fanno le cose, perché questo è un lavoro fatto di mille momenti diversi: ci sono lo studio, il live e la scrittura, che sono tre cose completamente diverse perché quando sei in studio stai chiuso dentro a quattro mura insonorizzate e impazzisci dietro il suono di un rullante o di una cassa per tutta la giornata, ed è una cosa stupenda perché a me piace tantissimo stare assieme ad altre due, tre persone a ragionare su delle sottigliezze. Poi c'è il live per cui devi diventare un atleta, cosa che io non sono, però mi cimento anche in quello, mi diverto e cambio completamente vita, perché ho dei ritmi totalmente diversi: è strano dover fare tardi la sera e svegliarti prestissimo la mattina. Insomma, lì ci sono altre ansie e altri stress ma anche la soddisfazione e un'iniezione mostruosa di entusiasmo. E poi c'è la scrittura, ma quella quando capita, capita.

Quest'obbligo contrattuale ti porta mai alla paura del foglio bianco?

Sì, ho già avuto il blocco dello scrittore, quindi per fortuna ho capito più o meno di che si tratta: sono stato alcuni mesi senza toccare neanche mezza idea perché in quel momento non avevo niente da dire, quindi era inutile dire qualcosa. Nel frattempo, però, ho studiato un po', ho suonato canzoni di altri perché così mi esercito anche con la chitarra, ho ascoltato tantissima musica, ho fatto un po' di benzina, ogni tanto ci vuole perché è così poi che ti vengono altre idee. Una cosa assurda è che ascoltando cose di altri ti vengono delle idee, ovviamente non è che copi gli altri, ma è grazie all'ascolto di cose diverse da te che forse apri dei cassetti nel tuo cervello che già c'erano, ma dovevano essere aperti, appunto.

Col senno di poi "Tante care cose" sembrava quasi una sorta di prova generale, un tentativo – non in senso negativo – prima di trovare la strada per questo.

Sì, anche se io mi sento sempre in questo stato e non escludo di rimanerci, perché sono uno che non capisce dove vuole andare, o non vuole capirlo, e questa cosa si riflette anche nei miei gusti musicali: difficilmente mi appassiono a un unico progetto di cui so tutto dall'inizio alla fine. Una realtà che mi è sempre piaciuta tantissimo e sto parlando, in particolare, delle scelte musicali, pur piacendomi anche i testi, sono gli Elio e le Storie tese perché hanno fatto tutto, e grazie al fil rouge del demenziale, della comicità geniale, sono riusciti ad affrontare tutti i generi, sono dei musicisti che si sono divertiti dall'inizio alla fine facendo qualunque cosa. Questa cosa mi interessa molto e mi auguro di riuscire a costruire sempre di più un'identità chiara, senza abbandonare la voglia di mettere un po' il naso qua e là, assaggiando diversi modi di fare musica, credo sia qualcosa di necessario per non annoiarsi e non annoiare.

In questo lavoro è come se ampliassi ancora di più lo spettro pop, partendo da Canguro in una linea diretta che arriva fino a Ragù, non perdendo ovviamente le caratteristiche più cantautoriali che forse, dall'esterno immaginiamo come qualcosa più di tuo: non è un caso che per i feat da una parte ci siano i Pinguini e dall'altra Giovanni Truppi, no?

Sono le mie due anime, certo, infatti sono andato all'estremo sia da una parte che dall'altra e di questo sono contento perché anche quello è un modo per dire: "Io sono sia questa cosa che quest'altra, l'ho capito e mi accetto, mi piacciono sia Giovanni Truppi che i Pinguini Tattici Nucleari". Averli insieme è una cosa che mi fa stare molto bene, sapere che anche loro sanno e approvano di essere insieme all'interno di un progetto mi ha fatto capire che per quanto siano due stili completamente diversi, forse anche con un pubblico diverso, probabilmente hanno matrici simili che magari sono anche le mie.

Ti è mai capitato di vivere il pop come qualcosa da maneggiare con cura perché considerato, da alcuni, un po' sporco?

Quello del senso di colpa dell'indie è un tema molto interessante: io sono nato professionalmente in un periodo in cui stava proprio finendo tutta la questione dell'indie che ormai era diventato mainstream, eravamo tra il 2016 e il 2017, era appena successa quella rivoluzione che personalmente mi ha cambiato la vita e ha cambiato la percezione della musica in questo Paese. Devo a quella rivoluzione il motivo per cui faccio questo lavoro, per cui sono riuscito a farlo e fidarmi di quello che mi piace. Ecco, lì è successo che, secondo me, è stato abbattuto un po' il muro che c'era sia tra rap e cantautorato che tra indie super di nicchia e cose più mainstream. Tutti sono stati messi tutti nello stesso calderone e secondo me non è una cosa così brutta o sbagliata, nel senso che c'è un dialogo più aperto anche con tutta la cultura underground: ho notato che c'è un po' più di dialogo da tutte le parti e mi sembra molto interessante perché è un'occasione per quelli come me che vogliono sperimentare tante cose diverse. È bello sentirsi liberi di andare da una parte oppure all'altra e anche il pubblico – e per questo che devo fare i complimenti alla mia generazione e anche quelli più giovani di me – c'hanno un po' meno puzza sotto al naso, sono più liberi di ascoltare pop o non pop senza avere la paura di essere giudicati dai loro sodali. Questo mi piace molto perché non lo considero essere ignavi, lo considero essere un po' liberi.

E non è un caso che la tua storia ti ha portato a Sanremo – benché fosse un festival un po' più sdoganato – con un pezzo "classico", fino ad arrivare a Ragù, operazione che apre ancora di più a un pubblico più ampio, generalista che, onestamente, non so a quanto ammonta…

Non lo so manco io, veramente, però quello che faccio in Ragù è interpretare il ruolo di quello che si vuole vendere a tutti i costi cercando di non farlo capire, quello magari un po' più grande di me, uno che dice "Oddio, allora adesso ci son tutti i miei amici che per una vita mi hanno sentito nel locale a fare le mie cose e all'improvviso devo fare una cosa diversa, quindi devo scrivere una hit che non è una hit", con quel tipo di paranoia lì. Così racconto con ironia una paranoia che è passata anche per la mia testa, esagerandola, però perché come ti ho già detto io sono super aperto e ho la possibilità culturale di esserlo.

Mi parli di Filippo Leroy? Si parla di creatività, imitazione, ma c’è anche una questione politica non esplicitata ma lasciata intendere.

È così perché io non mi definisco di certo un cantautore politico e politicizzato, non ritengo neanche di avere tutti gli strumenti per esprimermi in modo chiaro, quindi cerco di dire delle cose in modo semplice: quando sono estremo lo sono perché sono viscerale, non perché sono convinto al 100%.

Tipo?

Tipo quando dico il "Duce e la cocaina", lo faccio perché vedo questo tipo che sta tutto incattivito e mi fa venire in mente queste due cose. Per me è giocare con il pregiudizio, che è una cosa molto pericolosa ma che se usata con ironia mi fa molto ridere, poi è ovvio che prendo una posizione in cui credo.

La scelta di mettere per ultima la prima canzone scritta per prima ha un senso particolare o in scaletta stava bene così?

In scaletta stava bene così. Mi piaceva chiudere con quel solo di kazoo che dura anche il doppio rispetto a quanto uno si possa aspettare. Questa cosa mi piace anche perché nel disco parlo male degli assoli di chitarra fini a se stessi; è una cosa che mi ha sempre un po' annoiato vedere l'assolo virtuoso fatto dal chitarrista che alza il volume per prevaricare gli altri, è un atteggiamento che non ho mai vissuto bene, con queste scale esagerate, mentre credo che alla fine un assolo deve cantare. Poi c'è chi pensa "No, a me piace l'improvvisazione", giustissimo, non sto sputando sulla storia della musica per carità, però a me piace quando un assolo canta, quindi quando è scritto. Mi piaceva quella tenera contraddizione per cui dopo che parlo male dei soli ce ne metto uno, il primo della mia carriera, così lungo, che si prende tutto lo spazio.

Parlami un po' di come vivi i live, in un mondo in cui se non fai i Palazzetti quasi vieni guardato male…

Io sono molto contento del tour che faccio perché alla fine si è quasi tutto raddoppiato, sia Milano che Bologna, ci sono già vari sold out, mi sembrano luoghi dalle dimensioni giuste e il fatto di averli riempite mi rassicura molto, mi fa molto piacere, percepisco un grande affetto da parte del pubblico anche perché comunque sono soldi, sempre, e non è scontato che la gente li spenda per te. Questa cosa mi fa anche venire voglia di lavorare sempre di più, sempre meglio, per dare uno show che vale. Però questo tema del locale o minuscolo o grande esiste e secondo me corrisponde anche un po' con il mondo dello spettacolo: si passa dall'esplosione al "chi è quello?".

Eppure una volta la scena indie si costruiva su decine, centinaia di date nei club, e quella cosa servì a crearla e fomentarla, quella scena, mentre oggi sembra che suonare davanti a 300-400 persone sia quasi svilente…

Esatto, che poi in realtà è bellissimo perché sentire il calore delle persone è una cosa incredibile, ma soprattutto non sono poche persone. Adesso ci stiamo convincendo che 300 persone siano poche, ma non è vero! Non è scontato che 300 persone stiano lì per te, questo è un tema molto interessante. Vari addetti ai lavori mi hanno parlato di tutto il tema del sold out, del dichiararlo, che è una cosa che succede da poco e che faccio anch'io – perché è bello dichiararlo e perché sono dentro questo sistema -, non mi nascondo dietro un dito. Però mi hanno raccontato che prima non si diceva sold out, non si flexava, semplicemente succedeva. Ovviamente te ne parlo non in modo sprezzante, ci mancherebbe, ma antropologico.

L'ultimo singolo è +1, come mai la scelta di farla uscire ora, poco dopo la pubblicazione dell'album vero e proprio?

+1 è quasi la title track, la chiusura totale del cerchio di questo disco. Lo faccio uscire solo ora perché volevo dare un po’ di spazio agli altri pezzi, penso che oggi ci sia un po’ la tendenza ad ascoltare una cosa e poi abbandonarla lì, dimenticandola subito. In questo modo ho voluto poter far vivere l'album un po’ di più. È il pezzo più romantico, quello che parla di vita sentimentale e della persona con cui sto da 6 anni, di quello che ho vissuto e di quello che abbiamo passato. È un pezzo che si abbandona alla semplicità di dire ciò che hanno già detto in tanti, una canzone in cui ho cercato di dire delle cose che un tempo avrei ritenuto banali, ma che in realtà non possono essere dette in un altro modo. E per uno come me – magari un po’ legato emotivamente – è stato un gesto coraggioso.

Le tappe del tour di Fulminacci

  • 30 marzo 2024 – Trento – Sanbapolis (Data Zero)
  • 4 aprile 2024 – Milano – Fabrique (Sold Out)
  • 5 aprile 2024 – Milano – Fabrique (Sold Out)
  • 9 aprile 2024 – Venaria Reale (To) – Teatro Della Concordia (Sold Out)
  • 12 aprile 2024 – Napoli – Casa Della Musica (Sold Out)
  • 13 aprile 2024 – Roma – Palazzo Dello Sport
  • 18 aprile 2024 – Firenze – Tuscany Hall (Sold Out)
  • 22 aprile 2024 – Bologna – Estragon (Sold Out)
  • 23 aprile 2024 – Bologna – Estragon (Sold Out)
  • 24 aprile 2024 – Padova – Gran Teatro Geox
  • 5 settembre 2024 – Sesto San Giovanni (Mi) – Carroponte
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