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Eduardo secondo Antonio Latella (INTERVISTA)

In occasione del debutto a Roma del nuovo spettacolo di Antonio Latella, “Natale in casa Cupiello”, il regista stabiese ci racconta in un’ampia videointervista la sua visione dell’opera e dell’eredità di Eduardo.
A cura di Andrea Esposito
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È un regista preciso e rigoroso Antonio Latella. Anche quando sembra “tradire” il testo, in realtà sta “traducendo” l’autore, per essergli più vicino. È accaduto per Un tram che si chiama desiderio e anche per Il servitore di due padroni (per citare i suoi ultimi lavori, il secondo dei quali, soprattutto, ha suscitato grandi polemiche). Per questa ragione, per Natale in casa Cupiello, tutti gli occhi erano puntati su di lui: stava per toccare un “mostro sacro” del teatro nostrano peraltro proprio nell’anniversario dei trent’anni dalla morte. E per di più un autore ancora sotto diritti, di cui quindi non si può in alcun modo manipolare il testo.

L’allestimento proposto da Latella scavalca come al solito il realismo – non ha nulla a che fare, per intenderci, con gli “Eduardo” che in questi anni sta mettendo in scena Toni Servillo e che, diciamolo chiaramente, non sono certo meno necessari di questo “Natale”: ci vogliono entrambi i punti di vista. Anzi, grazie a Dio abbiamo due giganti come Servillo e Latella, così diversi tra loro. In Natale in casa Cupiello, infatti, non c’è psicologia e non ci sono nemmeno letti, comodini, tavoli e sedie. D’altronde la poetica di Latella – com’è noto – supera il reale per individuare ed esplorare gli archetipi portando lo spettatore in una dimensione altra (ma non per questo più lontana dall’autore, anzi…).

Nello spettacolo Latella sembra ripercorrere, registicamente, il processo di scrittura del testo. Infatti, Natale in casa Cupiello ha avuto una genesi del tutto particolare rispetto ad altri testi del drammaturgo napoletano: nel 1931 Eduardo scrive l’attuale secondo atto che viene messo in scena come atto unico al Kursaal dalla Compagnia del “Teatro Umoristico I De Filippo” riscuotendo molto successo. A distanza di un anno, aggiunge il primo atto e nel 1934, se non addirittura (secondo le ipotesi più accreditate) nel 1943 l’atto conclusivo, che configura quindi l’opera così come la conosciamo oggi. Insomma, al di là della vicenda della famiglia Cupiello, l’opera rappresenta nella teatrografia di Eduardo una sorta di cantiere che testimonia l’evoluzione poetica dell’autore e porta inscritte dentro di sé le tappe di un percorso di ricerca in buona parte sconosciuto ai contemporanei. Ed è qui che Latella trova uno spazio tutto da esplorare.

A vedere lo spettacolo sembra che questa laboriosa genesi del testo stia alla base del lavoro registico. Pur nell’organicità della messinscena, ogni atto è un capitolo a sé stante che si muove dal vuoto al pieno, dalla parola alla musica. Nel primo atto vediamo gli attori stagliati sul proscenio a dire (più che recitare) le battute. Luca è al centro e scrive nell’aria il testo mentre una enorme stella cometa fatta di fiori gialli cala alle loro spalle. I personaggi indossano mascherine da notte e si “risvegliano” quando è il loro turno. Tutto il primo atto si concentra quindi sul testo, sul lavoro di scrittura, sulla lingua che è, qui più che mai, pregna di simboli: dalla colla, al caffè, al brodo, all’acqua (riferimenti alchemici, sacri, simbolici…).

Il secondo atto, invece, vede in scena come protagonista assoluta Concetta, la moglie di Luca, che trascina come Madre Coraggio, un carretto (che sembra però una carrozza): è lei che ha sulle spalle il peso della famiglia, è lei che cerca di mettere insieme i pezzi, mentre tutt’intorno è il caos. Ci sono gli animali – che evocano sia il cibo che verrà mangiato durante il Natale, sia gli animali del presepe (tra i vari, vedi il cammello), ma forse anche la natura intrinsecamente bestiale di quel teatro (la sceneggiata) da cui Eduardo vuole allontanarsi (riflessione che parte nello spettacolo C’è del pianto in queste lacrime di cui Natale in casa Cupiello è il secondo movimento). Non c’è scenografia (come nel primo atto), ma non c’è nemmeno più la stella cometa. La famiglia è andata in pezzi. La scrittura è stata annientata dalla sceneggiata.

Se nel primo atto la parola era detta, se nel secondo atto le battute erano urlate, nel terzo atto si arriva, come si accennava, alla musica. Mentre Raffaele (il portiere) scende dall’alto come un angelo, gli altri personaggi si avvicinano al proscenio vestiti di nero con lunghi abiti a campana (un look a metà tra opera lirica e rito, forse la campana degli abiti evoca il tumulo tombale) come figurine di una danza macabra che si muovono sulle note di una litania appena udibile. Il terzo atto è il presepe: Luca è nudo nella mangiatoia, accanto a lui Concetta vestita da suora lo veglia mentre il Dottore canta “La calunnia è un venticello” da “Il barbiere di Siviglia” (ecco l’opera). Entrambi lo accudiscono come se fosse un bambino (IL bambino) costretto a recitare “la poesia di Natale”: la famosa storia dei fagioli. A completare il “quadro” giungono da un’uscita di sicurezza sul fondo anche il bue e l’asinello (veri, non c'è più "spazio" per la rappresentazione?), mentre la mangiatoia di Luca viene ricoperta di foglie. “Tommasì, te piace ‘o presebbio?”. E su questa scena finalmente il figlio può finalmente rispondere “sì” e raccogliere l’eredità del padre. Solo dopo averlo soffocato con un cuscino però. Renato Palazzi a tal proposito parla di "un eccesso decisamente superfluo". Se però allarghiamo l'orizzonte, inserendo l'opera nel contesto politico e sociale del nostro paese, forse quel gesto che filologicamente può apparire "superfluo" assume tutt'un altra valenza. Il teatro di Latella è politico, e questo non può essere tralasciato.

In conclusione, come in una recensione d’altri tempi, dedichiamo le battute conclusive agli attori e ai collaboratori artistici. Non servono però tante parole: molto bravi, anzi bravissimi dal primo all’ultimo. Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Vacca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia. I collaboratori artistici Linda Dalisi (dramaturg), Simone Mannino e Simona D’Amico (scene), Fabio Sonnino (costumi), Franco Visioli (musica), Simone De Angelis (luci).

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