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Davide Livermore: “Rileggo l’Horcynus Orca, capolavoro linguistico. Teatro? Più spazio al merito che alla Politica”

Davide Livermore, uno dei registi teatrali italiani più apprezzati al mondo, ha raccontato a Fanpage come ha adattato Horcynus Orca, il capolavoro di Stefano D’Arrigo, che sarà messo in scena in anteprima al Taobuk di Taormina il 22 giugno.
A cura di Francesco Raiola
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Davide Livermore
Davide Livermore

L'Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo è un classico della Letteratura italiana che ha sempre faticato a trovare uno spazio ampio nella critica nazionale ma soprattutto nei lettori. Un'opera postmoderna, monumentale, che qualcuno ha definito il Moby Dick italiano, un'esplosione della lingua italiana e una storia epica, come racconta Davide Livermore, ovvero il regista che ha deciso, assieme a Gep Cucco, di adattare al teatro quest'opera e che esordirà in anteprima assoluta a Taobuk – il festival ideato e diretto da Antonella Ferrara -, al Teatro Antico di Taormina, domenica 22 giugno alle ore 21.30. L'opera vede anche la partecipazione di Vinicio Capossela, Caterina Murino, Linda Gennari e le musiche dal vivo di Max Casacci.

"Horcynus Orca. Viaggio fantasmagorico nel mare della letteratura di Stefano D’Arrigo" è uno spettacolo che sarà diviso in quattro parti, che si lega al tema di questa edizione del Festival, ovvero i confini, quelli geografici, ideologici, esistenziali e linguistici che ‘Ndrja Cambria, il protagonista dell'opera di D'Arrigo, dovrà varcare nel suo viaggio post bellico (l'opera è ambientata dopo l’armistizio del 1943, in un’Italia dilaniata dalla guerra) tra femminote, maghe, famiglia e quell'orcaferone che dà il titolo all'opera. Abbiamo chiesto a Livermore di raccontarci quest'opera e come l'ha adattata, ma abbiamo parlato anche del ruolo del regista, di cosa è classico e del rapporto del Teatro con la Politica.

Perché la scelta di lavorare su un'opera complessa e importante come l'Horcynus Orca?

Intanto ci troviamo di fronte a un vero capolavoro, scritto in un momento storico in cui si poteva ancora giocare in maniera importante con la parola, anche in senso di rivisitazione, di invenzione, unendo dialetti e neologismi. Non siamo lontani dal Brancaleone da Norcia, un film per me leggendario in cui si ricrea uno stile falso medievale. Qui ci troviamo, invece, di fronte ad alcune reinvenzioni, rivisitazioni, ma anche a un'evocazione poetica importantissima attraverso l'italiano. Questa è una cosa che mi affascina enormemente: in un tempo in cui la cultura angloamericana si sta mangiando il 70% dei nostri vocaboli, mi affascina ritrovare la bellezza del gioco linguistico e dell'evocazione poetica attraverso i suoni, le invenzioni, i giochi linguistici, sono le cose che mi hanno affascinato e dato il desiderio di aderire alla proposta fatta.

Possiamo definirla un'opera epica…

Sì, io amo l'epica e amo l'approccio mitico, anche perché dell'epica a un certo punto si è avuto molta paura.

Che intende?

Nel periodo fascista l'epica era utilizzata per retorica e propaganda, quindi successivamente ce ne siamo tenuti un po' lontani. D'Arrigo ha compiuto un'operazione magnifica perché ha creduto profondamente al fatto che si possa continuare a raccontare il mondo attraverso afflati e slanci epici. Io amo tutto questo, sono maledettamente inglese ma anche maledettamente greco e quindi siciliano in qualche modo, perché quella cultura mi permea in maniera totale.

Come si lavora a un'opera come questa?

Si cerca di prendere i nuclei fondamentali da un punto di vista della narrazione, mettendo insieme le parti più struggenti ed evocative da un punto di vista poetico. Chiaramente quello che creeremo non sarà un'Horcynus Orca completo, sono delle vocazioni, la possibilità di poter sentire in maniera importante quelle parole e accoppiarle con immagini e straordinari suoni.

In che modo la musica e, in generale, l'intermedialità che la caratterizzano aiuteranno la messa in scena dell'opera di D'Arrigo?

Io sono figlio da sempre della dichiarazione che ha fondato il teatro dell'opera, e il signor Claudio Monteverdi diceva una cosa molto precisa, ovvero che l'armonia è al servizio della poesia e in questa sintesi clamorosa noi ci troviamo a poter esaltare la parte poetica attraverso un qualsiasi tipo di accostamento armonico che però abbia un senso profondo nella restituzione della figura retorica della poesia. Per cui l'elettronica, un basso continuo barocco, i suoni della natura, l'estetica possono cambiare, ma l'archetipo comportamentale e come si muove l'armonia in accoppiata a quella che è la restituzione del valore poetico di una frase, di una parola, di un senso è sempre lo stesso: cambiano gli stili ma funziona da più di 400 anni.

Cosa l'affascina ancora e cosa l'ha stancata del mondo del teatro dell'Opera?

È un momento in cui tutti quanti fanno i censori e dicono cosa è giusto o sbagliato e si permettono di giudicare questo e quello. Io ho molta voglia di fare quello che so fare, il teatro, quindi posso vedere degli aspetti che mi piacciono e altri che mi piacciono meno, ma soprattutto mi chiedo che cosa ho fatto io, come posso pensare di cambiare determinate situazioni o come posso pensare di preoccuparmi della felicità delle persone che sono intorno a me e di cui ho la responsabilità. Penso che questo che sia il migliore approccio che io possa fare senza dovermi vestire da pseudo predicatore che ha un verbo che non ha nessun altro.

Mi dice, allora, qual è la forza, ancora oggi, del teatro?

In questo momento storico il teatro vince perché c'è un bisogno incredibile – anche se magari non manifesto – di comunità, di umanità, dell'avere artisti che generosamente danno la loro vita su un palcoscenico. Quindi il teatro, in questo momento, è ancora più un luogo di militanza umana.

50 anni del libro Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo
50 anni del libro Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo

Come possiamo definire la classicità, qualcosa che parla al contemporaneo?

Il classico parlerà sempre al contemporaneo, le faccio un esempio, in Maria Stuarda, negli anni 70, avrebbe parlato del conflitto tra protestanti e cattolici, oggi ce ne frega di questo? No. Quello che ci interessa è il rapporto tra la donna e il potere. Un'Elisabetta che è costretta a fare l'imitazione di un uomo e Maria invece che governa da donna e sono due modelli di donna al governo completamente diverse e oggi è un tema molto importante. Quello che voglio dire è che il classico è tale perché riverbera nelle contemporaneità in una maniera diversa.

Horcynus Orca lo ritiene un classico?

Sì, vorrei definire il libro di D'Arrigo un classico, e penso che quello che fa riverberare è da un lato la nostalgia della lingua, dall'altro la nostalgia della creatività con la lingua italiana. E poi c'è la parte mistica. È un classico perché in un tempo storico in cui sembra che sia tutto quanto algoritmico, scopriamo di avere dei buchi di conoscenza mistica, di conoscenza esperenziale personale che a mio avviso possiamo trovare in questo libro e possiamo in qualche modo cercare in quella che è la storia del nostro protagonista.

Gli manca forse la popolarità che meriterebbe?

Sono 50 anni che è questo libro è stato pubblicato e in questi 50 anni sicuramente la critica e il pubblico gli hanno dato un posto importante nella letteratura. Non c'è una divulgazione a 360 gradi, non stiamo parlando di un libro che può definirsi famosissimo, ma secondo me una delle cause è proprio perché è cambiato molto l'italiano di partenza. E quindi è più difficile da riconoscere, per esempio, il gioco linguistico anche per persone che hanno studiato e sono alla ricerca di una ricchezza linguistica, ma ci troviamo immersi in un mondo che sta riducendo molto quello che è la conoscenza del nostro idioma e questo non porta a una facile fruizione.

Senta, qual è il ruolo del regista contemporaneo?

Il regista è sostanzialmente un decoder, deve essere un ponte tra la realtà e l'opera, una sorta di medium. È un mezzo che deve riuscire a fare un servizio profondo attraverso la propria creatività e la propria sensibilità ed è quella di non servire sostanzialmente il proprio ego e quello che piace a lui, ma attraverso la propria sensibilità mettersi in relazione e al servizio profondo dell'opera che sta servendo. Il regista contemporaneo è un servitore della creazione altrui, una sorte di sciamano, di ponte in cui tutte le forze creative devono concorrere non per se stesso, ma per qualcosa di più alto. Oggi è D'Arrigo, domani Giuseppe Verdi, dopodomani Monteverdi, poi Mozart, Shakespeare o Eugene O'Neill.

È uno Zelig…

Esatto, è proprio uno Zelig, perché un conto è avere gli strumenti che preferiamo, un altro è confrontarsi col diverso: io uso molto le tecnologie, però le odio, non mi interessano. Ma non c'è niente che mi interessi in generale, mi interessa quello che può essere un buono strumento per raccontare una storia. E se capisco che la tecnologia, i pannelli video, la videomappatura, possono servire, li approfondisco e li uso assieme a Paolo Gep Cucco, che è un grande artista visivo. Non vogliamo creare effetti wow, perché ormai tutti quanti siamo avvezzi a qualsiasi tipo di video proiezione, di immagine proiettata su un palazzo etc. Ma sa qual è la cosa che ci commuove?

Qual è?

È l'effetto American Beauty: avere anche solo un sacchetto dell'immondizia che si muove in maniera struggente come se fosse il movimento di un danzatore o di un'anima. Quante volte ci sentiamo così? Eppure anche da un sacco dell'immondizia possiamo scoprire dei movimenti della nostra anima estremamente poetici e struggenti. Se si racconta la storia è bellissimo, se si fa solo della scenografia non è così interessante.

Adesso la porterò dall'anima a qualcosa di più concreto: lei dirige un teatro nazionale, qual è il rapporto dell'ambiente con la Politica, in questo momento?

Non parliamo del teatro in generale, ma del teatro pubblico del quale io sono un difensore totale. E il teatro pubblico è un bene comune che va restituito alla gente e deve essere uno dei luoghi finanziati dallo Stato, perché attraverso il teatro pubblico non solo si dà da lavorare a una comunità enorme di persone, ma è un luogo di militanza, in cui si forma l'anima comunitaria, uno dei luoghi di produzione d'arte capace di creare comunità e pensiero. Dal dopoguerra la Cultura è stata data in subappalto al Partito Comunista, c'è stata una lunga stagione in cui abbiamo visto grandissimi artisti ma anche artisti di partito. Io ho visto a volte premiare la meritocrazia e altre altre volte premiare la tessera di partito.

È cambiato qualcosa nel frattempo?

C'è una politica che vorrebbe creare una nuova classe dirigente fedele ad essa, ma questo è ciò che si è visto spesso in ogni schieramento politico. Ma il mio maestro Carlo Majer mi ha sempre detto: "Devi pensare e desiderare il mondo che vuoi e io voglio la meritocrazia"; quindi le politiche possono premiare la competenza e il talento oppure l’affiliazione partitica e in questi 80 anni di Repubblica Italiana abbiamo assistito a tutto: grandi artisti che sono stati protetti e incoraggiati, altri grandi ignorati, altri poi che sono stati portati avanti, nonostante una mediocrità conclamata. Spero che la politica tutta, destra e sinistra, finalmente capisca e comprenda che i teatri funzionano quando sono dati in mano alle persone competenti.

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