Come Brian Wilson e Pet Sound hanno inventato il pop contemporaneo

"Sono un perfezionista. Proprio come era mio padre". Presentando nelle note interne la versione del 2011 (forse) definitiva della session di SMiLE, il disco mai terminato che sarebbe dovuto arrivare dopo Pet Sounds, Brian Wilson non riusciva a non mettere le mani avanti, quasi per scusarsi di quel capolavoro incompleto, mentre peraltro ce ne consegnava un altro con il gentile contributo di Mark Linett. In due colonne di testo, il musicista americano scomparso oggi all’età di 82 anni, condensava tutta la sua storia complicata: l’ombra dell’abuso paterno e la personale mania artistica, ma anche la rincorsa alle innovazioni dei Beatles (citati due volte), le pressioni e le ansie, la fama e il rifugio a Beverly Hills.
Ma, al centro di tutto, un sorriso: "La musica era molto seria. Le parole molto importanti. I suoni che stavamo mettendo insieme molto differenti. La musica, lo spasso, gli amici – ogni cosa ci faceva sorridere. Quello era lo scopo di quanto stavamo facendo. Far sorridere il mondo. Un sorriso può salvarti l’anima", diceva a proposito delle sessioni di scrittura con Van Dyke Parks e quelle di incisioni con i suoi colleghi di studio (David Anderle, Michael Vosse, Danny Hutton, Derek Taylor) e naturalmente i suoi compagni di sempre davanti al microfono, Carl, Dennis, Mike e Al (e l’ultimo arrivato Bruce). "Era tutto vero: la tenda, gli elmetti da pompiere, tutto”, ci dice senza alcun imbarazzo, ma invitandoci semmai a fare i conti con l’aneddotica per andare oltre la coltre di strano, perfino oltre la cappa del genio. In fondo a tutto c’è un sorriso, che si apre come si apre il refrain di Wouldn’t It Be Nice alla fine del bridge rallentato, che si illumina come quando un controcanto di Sloop John B si risolve in una voce singola. Ma più semplicemente, la gioia che in tre minuti può arrivare da un insieme di note disparate che richiedono giusto un poco di ordine. O armonia.
Per Brian Wilson, i fratelli Carl e Dennis, il cugino Mike Love e il compagno di classe Al Jardine, era cominciata esattamente così: impilando le note, una sopra l’altra. L’armonia a più voci è stata la prima e più profonda passione della famiglia Wilson, un gioco di prestigio che ha fatto avvicinare Brian al doo wop e poi al jazz, dove le regole della convivenza di note su scale differenti si facevano più raffinate e sottili. L’apice di questo controllo del caos avviene in quel punto miracoloso in cui composizione ed esecuzione diventano una cosa sola e viva, lasciando lo spazio per il terzo pilastro di quest’architettura magica: l’incisione. I Beach Boys non potevano continuare a cantare di motori ruggenti e tavole da surf non perché fossero argomenti infantili, ma perché c’erano ancora molti luoghi musicali da conquistare per continuare a rendere la musica qualcosa di eccitante, per non far spegnere quel sorriso. Come lo stesso Wilson racconta in questo e molti altri frammenti di riflessione sul suo passato, dalla metà degli anni ‘60 lui e il trio Lennon-McCartney-Martin si trovano nel mezzo di una “corsa agli armamenti” musicale che avrebbe fatto avanzare il pop di molti decenni. Ma parlare del contributo dell’artista californiano in termini di rivoluzioni tecniche sarebbe riduttivo. Ciò che ha fatto Brian Wilson è stato prima di tutto autorizzarci a inventare qualcosa di superbo a partire da una materia prima molto terrena, e l’album-capolavoro Pet Sounds ne è l’esempio più lampante.
Dentro Pet Sounds ogni emozione è amplificata, ogni esperienza è più potente: la gioia è più gioiosa, la malinconia più malinconica, l’ansia più ansiosa, l’attesa più lunga e l’istante più conciso. Eppure, non è un disco di colori primari, anzi: è un disco di periodi ipotetici e possibilità inespresse, energia potenziale che si scatena in raggi immani: se il Big Bang ci ha messo pochi minuti a produrre i primi atomi di idrogeno, a Brian Wilson sono bastati per dare vita a musiche che sarebbero scaturite da quelle registrazioni – all’insaputa dei Beach Boys.
Pet Sounds parte dall’interno e vola in ogni dove, celebra la solitudine ma sogna la comunione, e per rappresentare questo equilibrio fragilissimo si permette di usare “tutto” e di farlo suonare come fosse nulla. Questo “tutto” è un universo di timbri provenienti da ogni angolo dell’esistente: dall’elettronica nascente alle orchestre sinfoniche coi loro legni e ottoni, dalle lattine di Coca-Cola alle percussioni afro-cubane, dalle splendide corde di basso elettrico pizzicate da Carol Kaye della leggendaria band di turnisti losangelini Wrecking Crew ai campanelli di una bicicletta. Questo “tutto” si manifesta nelle sovraincisioni di praticamente ogni parte strumentale, raddoppiate per affinarne la chiarezza, e nell’uso di registrazioni ambientali come i cani che latrano e il fischio del treno alla fine di Caroline, No, pescato da un disco di effetti sonori e integrato dentro una registrazione pop con un’intuizione che anticipava Revolution 9 dei Beatles e tirava una linea tra la Musique Concrète e il sampling moderno. Questo “tutto” è praticato stiracchiando la struttura delle canzoni per come si intendevano allora, inserendo armonie inusuali, affidandosi all’orecchio e all’intuito prima che alle regole scritte, certamente aprendo le formule e riscrivendole da zero, come nell’ascesa senza fine di God Only Knows, una canzone che dimostra nella pratica il suo senso assoluto di incertezza, dove ogni passo successivo è un mistero al quale tuttavia si arriva nella più logica delle maniere.
Non era fatto per questi tempi, diceva in quel disco Brian Wilson – trent’anni dopo gli avrebbe fatto eco il documentario omonimo I Just Wasn’t Made For These Times, che usava la frase forse in modo più appropriato, visti i decenni di esilio dal mondo che il musicista aveva trascorso. Sentire di non essere fatti per il proprio tempo nel momento stesso in cui si scrive una pagina di quell’epoca e se ne apre un intero nuovo capitolo deve essere la contraddizione di fondo che ha inseguito Brian Wilson ogni volta che, nei decenni successivi al suo ritorno in scena e fino a poco tempo fa, si è ritrovato a meditare sulla sua storia. L’eccezione che scrive la regola, l’anomalia che allena le nostre papille gustative musicali a riconoscere ancora oggi (nel dream pop, nel rock psichedelico, nel folk d’avanguardia, nell’elettronica più intimista o spettrale, nello shoegaze, in ogni cosa grande e piccola) molte particelle di quelle invenzioni.
E ancora una volta, mentre ammiriamo un nuovo strato di invenzioni, siamo costretti a scavare fino in fondo per ritrovare quella pura e bambinesca gioia di sperimentare e giocare, quell’innata spinta a comunicare – non dimentichiamo che i testi di Pet Sounds sono in gran parte opera di un pubblicitario, Tony Asher, perché tra il desiderio di una Barbie e il desiderio di essere compresi da qualcuno per non sentirci più soli ci passa un soffio. Proprio questo sentimento di fondo, forse, è quel che rende Pet Sounds un classico dei classici, prima ancora che le sue soluzioni produttive all’avanguardia: dentro quel suono caotico eppure affilato, dentro le sue armonie sempre in cerca di una nuova casa, sentiamo il timore che il proprio potenziale venga sprecato, che nessuno ci capirà, cioè una sintesi innegabile di ciò che è per chiunque l’adolescenza, stato liminale per eccellenza che questo disco sembra abitare.
Se quest’opera in particolare continua a occupare i primissimi posti di tutte le classifiche critiche non è solo per attaccamento nostalgico (in prima persona, o preso in prestito da un’altra generazione); né solo per il prestigio della produzione; è che ci illumina ancora oggi su cosa il pop può essere, una singolarità dove non c’è differenza tra anticonvenzionale e normale, ma dove non dovrebbe esserci mai spazio per il banale.
Se oggi prestiamo attenzione a “come suona” una canzone e non solo a quello che dice alla lettera, lo dobbiamo anche a Brian Wilson, maestro nel mettere in sequenza una serie di mood mobili e multiformi – per via del disturbo bipolare che lo affliggeva, dicono alcuni biografi, ma facciamo molta attenzione a collegare malattia mentale e creatività in modo automatico. Si può dire, semmai, che la traiettoria della musica pop verso la complessità e la concentrazione di contenuti era stata avviata già da qualche anno: in questo senso, Good Vibrations è stato l’apice di un’accelerazione incontrollata verso la forma-canzone massimalista, l’atto tracotante di un Prometeo musicale che ruba il fuoco agli dei e lo mette nelle chitarre, nelle batterie, nelle tastiere.
Abbozzato durante le session di Pet Sounds, completato con il testo di Mike Love, inciso nel corso di decine e decine di ore in studio, il singolo che lì per lì sembrò dare il via alla stagione psichedelica era anche e soprattutto un lavoro pionieristico di produzione modulare, l’anteprima di una musica elettronica che doveva ancora diventare popolare. Per realizzare la sua “sinfonia tascabile”, Wilson non si limitò a trasporre in studio una composizione scritta da capo a coda, ma incise diverse idee e le assemblò durante e a posteriori, cancellando per sempre la distinzione tra composizione, produzione ed esecuzione, trovando una strada per ordinare in modo definitivo il caos dei suoni. Creare una canzone pop ancora oggi assomiglia più a questo processo, modellato nell’arco di diversi mesi ai Gold Star Studios di Hollywood da Brian Wilson nel 1966, che non a quanto non si fosse fatto fino ad allora, stendendo progressioni e stanze alla stessa maniera dei menestrelli medievali. I strani ricorsi della storia ci fanno usare addirittura la stessa parola, “vibe”, per inquadrare il ricco sistema di tessiture, idee, ganci e motivi che viene cucito a posteriori in una canzone.
Tagliare e incollare pezzi di canzone può essere anche un metodo molto economico e svelto. A meno che tu non sia un perfezionista allergico alle banalità come fu Brian Wilson. Le sessioni in studio contemporanee e successive a Good Vibrations avrebbero dovuto portare all’album Smile, quello da cui abbiamo iniziato. Eppure, nella trama sempre più complessa di simbolismi e sperimentazioni in cui si era perso, la spinta entusiastica di Brian finì per dissiparsi. Mentre le sue condizioni di salute mentale si facevano sempre più critiche, quel lavoro inevitabilmente si inceppò. Nonostante diverse letture che accusano ora la Capitol, ora i compagni di band, ora semplicemente l’abuso di droghe, Wilson è stato piuttosto chiaro nel prendersi la responsabilità di aver chiuso quel progetto ambizioso così come l’aveva aperto.
Riprendere in mano quelle sessioni di registrazione spalanca un multiverso di possibili timeline alternative. Ma chiedersi cosa sarebbe stato della musica pop se quel disco fosse mai stato portato a termine è come chiedersi cosa sarebbe stato del mondo se Kennedy non fosse stato assassinato o se i sovietici fossero arrivati per primi sulla Luna: un esercizio intellettuale stimolante ma che non ci porta da nessuna parte. Anche perché non tutte le rivoluzioni sono fatte per essere raccolte sul momento. E perché, in tutto questo turbinio di innovazioni e profezie, Wilson non perse mai di vista lo scopo principale del fare canzoni: condividere emozioni. Non sempre, però, un sorriso.
Nell’agosto del 1971 esce Surf’s Up, il disco che, secondo molti (tra cui Bruce Johnston), contiene l’ultima bella canzone di Brian Wilson e che in generale rappresenta il canto del cigno di un’esperienza che non sarebbe mai più stata – volontariamente o meno – sul precipizio dell’innovazione. ‘Til I Die, la canzone in questione, non è un avanzo delle sessioni di Smile: è una creazione più recente, conseguenza della crisi esistenziale del musicista, in piena stasi depressiva. La canzone dovrebbe evocare il senso di angoscia di chi si sente in balia di forze esterne e superiori, completamente privo di controllo su di sé: lo fa con una serie di immagini simboliche tanto semplici quanto fulminanti, in un testo scritto da Brian, cosa rara. Un tappo di sughero galleggia sopra un oceano in tempesta e profondissimo, nessuno sa quanto profondo.
Mentre elabora concetti molto cupi – che il musicista avrebbe anche provato a moderare, come si sente in una bellissima versione alternativa -, mentre si ripete come un mantra che non sarà nient’altro che questo fino alla sua morte, il messaggio si allaccia paradossalmente a una delle più morbide armonie a cinque voci della storia dei Beach Boys: come se in fondo a quel mare immenso ci si possa trovare forse un po’ di pace. Un pensiero triste e meraviglioso, sottolineato dalla palpitazione irreale della batteria. Irreale perché non è una batteria, ma uno dei primissimi esemplari di drum machine, la stessa con cui negli stessi mesi da un’altra parte di Los Angeles stava sperimentando Sly Stone, un altro autentico genio americano scomparso di recente.
Canzoni di pop profondamente depresso come ‘Til I Die non sarebbero riemerse per un altro decennio almeno – ma sarebbe meglio dire che di invenzioni così ne capitano poche in assoluto. In realtà Wilson e Love ne avevano fatta uscire una non diversamente profetica, stilisticamente parlando, appena un anno prima: All I Wanna Do, considerata una pietra miliare della musica lo-fi di là da venire, che però fu prodotta principalmente dal fratello Carl per il commercialmente sfortunato Sunflower. Forse i Beach Boys non potevano fare a meno di prevedere il futuro, forse Brian Wilson era più in sintonia con i suoi tempi di quanto non pensasse – basta vedere come Wild Honey nel ‘67 avesse anticipato prima di tutti la fine del pop barocco. Non perché l’innovazione fosse la sua ossessione, ma perché credeva nella possibilità della musica di essere molto più che una collezione di note e di parole. La “voce di Dio”, come avrebbe avuto modo di dire spesso. E mentre canti qualcosa per passare il tempo con gli amici o per far sorridere un ascoltatore, può scapparti di cambiare per sempre la storia della cultura pop.