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Coez: “1998 non è un disco così pop. In questi anni ho tracciato una strada nell’urban italiano”

Coez è tornato con il nuovo album 1998 che torna a suoni più larghi rispetto ai precedenti in cui si era tenuto più street. Qualcosa che va oltre il pop, leggendolo in una sua forma più ampia, rivendicando quanto sia stato precursore di una nuova via dell’urban.
A cura di Francesco Raiola
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Coez a Fanpage – ph Francesco Galgano
Coez a Fanpage – ph Francesco Galgano

Come si fa a inquadrare Coez? Rapper, hitmaker, cantautore, sono tanti gli abiti che il cantante romano ha saputo vestire in questi anni, tutto con una certa classe, quella che gli ha permesso di diventare un punto fermo della musica italiana e in grado anche di cavalcare un ottimo crocevia di eventi che lo portò a diventare un fenomeno nazionale con Faccio un casino che sfruttò l'apertura della FIMI agli stream anche non a pagamento, facendolo schizzare in testa alle classifiche, proprio quando aveva lasciato Carosello per mettersi in solo. E da quel momento ha alternato sound più pop, altro più urban, riuscendo a definire un ambito tra i due mondi che è diventato uno standard a cui guardare. 1998 torna a suoni più larghi, come li definisce lui stesso, che prima era tornato a suoni più street. Abbiamo intervistato Coez – che il 12 novembre partirà col suo tour (date in fondo all'intervista) – per parlare di come è cambiato in questi anni.

"Esce oggi 1998, il nuovo album di Coez, che segna ufficialmente il ritorno del cantante alle sonorità pop", dice il comunicato stampa. Definiamo "pop".

Guarda, per fortuna non l’ho scritto io. Ed effettivamente no, non è così pop. Immagino che lo dicano per distinguerlo dal disco precedente, Lovebars e da Volare in cui avevo un po' virato, dopo È sempre bello su qualcosa di più urban, più street, anche più hip hop nell’attitudine, con tanti sample e batterie campionate. Qui invece sono tornato alla "canzone larga", ormai dire pop oggi rievoca anche cose molto diverse. Io appartengo ancora a quella prima accezione: largo ma senza balletti.

È un album nostalgico o di crescita?

È l’album che avevo bisogno di fare, avevo delle cose da dire e da raccontare. La mia scrittura va sempre di pari passo con la mia vita: in questo periodo ho dovuto guardare indietro, e nel farlo ho rovistato parecchio nel passato. Da lì sono uscite queste date, questo immaginario, queste vibe del disco.

Il pezzo che ha dato il titolo all’album, "Estate 1998", è arrivato verso la fine, giusto?

Sì, era quasi tutto pronto a livello di sonorità, avevo già una direzione precisa. Con quel brano abbiamo solo fortificato il concept anni ’90, e poi sono nate due o tre cose più mirate a consolidare quel suono. Di base è un disco nato per esigenza, come quasi tutti i miei dischi.

Di solito il titolo ti arriva alla fine?

Quasi sempre. Per esempio Non erano fiori si è intitolato così solo dopo l’ultimo pezzo scritto. Raramente il titolo viene prima, anche se con È sempre bello è successo. Con questo è venuto prima il concept, ricordo che con Faccio un casino era stato talmente negativo quello che gli era girato intorno, successo a parte, che avevo deciso di chiamarlo È sempre bello perché mi piace pensare che i titoli dei dischi poi si realizzino nella vita reale.

Com’era Silvano nel 1998?

Già immerso nei graffiti e nel rap, ascoltavo Tupac, Colle der Fomento, mi stavo affezionando all'hip hop nella sua interezza, a parte la breakdance che non mi è mai piaciuta. In quel periodo suonarono i Wu-Tang Clan a Roma e io ci andai, cominciavo a essere partecipe. Poi avevo 15 anni: inizi a vestirti come vuoi, a mangiare come vuoi tu, ad avere i tuoi gusti, mentre qualche anno prima ascolti ancora i dischi dei tuoi genitori, dei cugini più grandi. Penso che tra i 14 e i 15 anni si formi un po’ la matrice di quello che sarai. Ero già l’embrione di quello che sono oggi, solo con meno esperienza.

Era un’altra Italia per il rap, no?

Assolutamente. C’era una sola rivista che parlava di quella cultura, Aelle Magazine. Io l’ho conosciuta dai graffiti, prima ancora che dal rap. Costava 8.500 lire, un'enormità a quei tempi, ma era la Bibbia. Pensa che se all’epoca vedevi uno vestito largo, a Piazza di Spagna, lo salutavi chiedendogli se anche lui ascoltasse il rap. Eravamo pochi e ci si riconosceva al volo, cercavamo di fare network, anche nei locali, andavi a vedere le gare di break, compravi i pantaloni larghi…

Poco fa qua c'era Frah Quintale, sulla copertina del suo album c'è una cassetta degli attrezzi. Mi parli degli "attrezzi" emotivi che hai usato per questo album?

Per 1998 ho scavato molto nel mio passato, più del solito, qui era un passato più remoto. Estate 1998 racconta di una persona che ho perso quando avevo 15 anni: ricordandola, ho ricreato una fotografia degli anni '90, piena di immagini quotidiane, infatti canto "In due con un casco, l’adesivo di Vasco (…) Era il '98, prima del botto, prima dei telefonini". C’è nostalgia, certo, ma non negativa perché se sei nostalgico vuol dire che c’è stato un momento in cui sei stato molto bene.

"Ho aperto mille porte senza avere chiavi. Ora, mi raccomando, almeno fate i bravi" (Mr Nobody) è una bella punchline. Mi pare che ti senta un po’ come un capostipite.

Sì, ci sta. Sono modesto quando serve, ma anche realistico. Ali sporche in Non erano fiori fu il primo pezzo in mezzo tra il pop e il rap, una cosa fatta in quel modo non c'era ancora. Poi altri l’avranno fatto meglio, dopo, ma credo di aver tracciato una strada nell’urban italiano. Io c'ero, l'ho vista, so com'era all'epoca.

In "Mr. Nobody" canti anche: "Avrei dato un braccio per firmare con la major, rimango indipendente solo a sfregio".

Da ragazzo sognavo di firmare con una major, poi ho firmato con Carosello, che è una grossa indipendente, e addirittura  il vero botto è arrivato quando mi sono autoprodotto con Faccio un casino. Quella rima significa che spesso ci fissiamo degli obiettivi, ma alla fine ognuno ha la sua strada e devi viverti il presente.

Ora che hai 40 anni e tanti fan, com’è avere un pezzo di pubblico che non conosce ciò che è successo prima di Faccio un casino?

In realtà sento ancora molto supporto da chi c’era prima. Alcuni pezzi sono diventate hit, però certe canzoni che magari non hanno fatto il botto, ai concerti funzionano come quelli più noti. Poi bisogna distinguere tra chi mi ascolta in radio e chi viene ai live, La musica non c'è la conosce chiunque, ma il fan vero si porta dietro tutto il percorso. Mi sono portato dietro anche chi mi ascoltava da Figli di nessuno (il primo album di Coez, ndr), ma credo di avere un buon equilibrio tra le due cose.

Che cosa ti sei portato dietro dai live a Londra?

Mi hanno fatto riscoprire l’intimità. Ogni venue cambia l’approccio: nel primo club, con un impianto forte, il concerto era più fisico; nel secondo, un jazz club, più piccolo, ho parlato di più, ho raccontato le storie dietro ai brani, cambia completamente l’energia. Nei palazzetti, per dire, i cori del pubblico ti travolgono: lì capisci che anche una ballad può essere un pezzo da live.

Questo influenza anche la scrittura dei dischi?

Un po’ sì. Non devi forzare le cose, ma ci pensi. Io inseguo sempre i pezzi up-tempo, e sono quelli che mi riescono meno. Con le ballad, le cose mid-tempo mi trovo meglio. In questo disco mi piace Mr. Nobody, per esempio, una canzone che suonerò molto e mancava al mio repertorio. La cosa figa è essere consapevole di ciò che hai in repertorio, però quando hai sette-otto dischi, inizi a ragionare anche su quello che manca e serve ai live. Prima scrivevo 15 canzoni e ne pubblicavo 10, oggi ne scrivo 30-40 e continuo a sceglierne 10, quindi segui molte più strade di prima.

“Faccio un casino” ha segnato un momento storico per la musica italiana. Oggi esiste un corrispettivo di quel cambiamento?

All’epoca si incastrarono molte cose. Io ero al terzo album, su quella scia, c’era Calcutta che aveva reso "indie" una etichetta riconoscibile, anche se in tanti stavamo già facendo quella cosa, ognuno per i fatti suoi, Paradiso faceva una cosa più anni 80, Contessa stava facendo un progetto mezzo cantautorato punk, ma Calcutta è quello che ha infarcito più di tutti l'etichetta indie, e alla fine ognuno di noi è entrato con la propria attitudine. Inoltre, Spotify aveva cominciato a certificare con delle soglie bassissime, poi c'era una generazione nuova che si vestiva come voleva, si scriveva da solo le canzoni. Oggi non so se esista un fenomeno così, se dovesse nascere immagino lo farebbe fuori dalle dinamiche che conosciamo già, fuori da Spotify, da Sanremo…

Ti ci trovi bene in questo mondo musicale?

A momenti. Ora sì: sono sereno, concentrato su quello che faccio. Nel contesto musicale, poi, c’è tanto caos. Oggi è difficile far ascoltare un album intero alle persone, ma come sempre ci sono artisti validi e meno validi. Ciò che un po’ si soffre è il sovraffollamento. Escono una quantità enorme di dischi al mese, e lo spazio è sempre quello. Io sono contento di dove sono e di come ci sono arrivato.

Queste le date del tour di Coez

  • Mercoledì 12 novembre  – ANCONA  @ Palaprometeo // DATA ZERO
  • Venerdì 14 novembre 2025 – ROMA @ Palazzo dello Sport
  • Sabato 15 novembre 2025 – ROMA @ Palazzo dello Sport
  • ⁠Giovedì 20 novembre 2025 – NAPOLI @ Palapartenope
  • Sabato 22 novembre 2025 – BARI @ Palaflorio
  • Sabato 29 novembre 2025 – TORINO @ Inalpi Arena
  • ⁠⁠Lunedì 1 dicembre 2025 – MILANO @ Unipol Forum
  • Martedì 2 dicembre 2025 – MILANO @ Unipol Forum
  • Venerdì 6 dicembre 2025 – FIRENZE @ Mandela Forum
  • Domenica 8 dicembre 2025 – ROMA @ Palazzo dello Sport

(Questa intervista è stata editata per motivi di lunghezza e chiarezza)

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