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Amici perduti di Pier Luigi Razzano, storia di amicizia al Rione Sanità di Napoli

Pubblichiamo un estratto di “Amici perduti” di Pier Luigi Razzano appena pubblicato per le Edizioni San Gennaro, la casa editrice del Rione Sanità a Napoli voluta da padre Antonio Loffredo e diretta da Edgar Colonnese. Il racconto di Razzano, insieme a “Di sangue e di altre cure” di Agnese Palumbo, inaugura la neonata collana di narrativa “Svincoli” a cura di Angelo Petrella.
A cura di Redazione Cultura
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@LaPresse
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Pubblichiamo un estratto di "Amici perduti" di Pier Luigi Razzano, Edizioni San Gennaro, di recente uscito per la neonata collana Svincoli diretta da Angelo Petrella. La casa editrice napoletana, diretta da Edgar Colonnese, è promossa dalla Fondazione San Gennaro diretta da padre Antonio Loffredo al Rione Sanità di Napoli. Il primo volume della collana è "Di sangue e di altre cure" di Agnese Palumbo.

L’estate del 1957 fu rovente. L’afa seccava l’aria fin dal primo mattino, neanche la notte riusciva a portare tregua, dalle finestre aperte non arrivava nessun sollievo, alcune persone dormivano fuori ai balconi, si restava fino a tardi in strada a luci spente: si era convinti che emanassero anche loro calore, tra le ombre e le chiacchiere c’erano solo delle piccole luci, erano le sigarette che si spegnavano all’alba, quando il giorno riappariva già carico di nuova aria bollente.

Via Santa Maria Antesaecula sembrava spaccarsi sotto il sole, i panni stesi sventolavano secchi, già asciutti, Tonino e Enzo alla fine della strada girarono per vico Carrette.

All’interno di un palazzo trovarono Ernesto, Vittorio e Lino. Calciavano e tiravano le pietre contro un camion abbandonato, alcune cadevano dentro il buco lasciato dal parabrezza, Lino le faceva rimbalzare dal cofano verso il cancelletto con le sbarre arrugginite di una vecchia cantina.

«Guagliu’, la prossima volta che venite tardi fate una cosa, non vi presentate proprio. Già fa caldo, poi ci mettiamo ad aspettare».

«Vitto’, per me hai aspettato pure poco, se ti sta bene, se no puoi pure andartene. Qua le cose si fanno come dico io».

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Enzo si era girato per vedere se anche gli altri provavano a protestare, poi mostrò il pallone. Cominciò a palleggiare, il movimento era perfetto e ipnotico, il suono picchiettava l’aria bollente e si dilatava nel cortile deserto, poi Enzo si coordinò indicando il punto preciso di una saracinesca chiusa e con un calcio potente, di collo pieno, scagliò il pallone proprio dove voleva.

Lino corse a prenderlo, lo restituì a Enzo, lui lo passò a Vittorio, che lo squadrò attentamente, accarezzandolo.

«E bravi ai gemellini, proprio un bel lavoro! Allora nun dicevate strunzate…»

Enzo glielo strappò con forza.

«Guarda Lino, guarda qua. La prossima volta che prendi la camera d’aria da tuo padre, mai più le pellecchielle che sono buone per le biciclette, se no quando vado a mettere la valvolina si scassa subito tutto.»

Palleggiò ancora e dopo due tocchi lo passò a Tonino, che di testa, con morbidezza, lo passò a sua volta a Ernesto. In porta corse Lino, mettendosi sotto la saracinesca chiusa, e tutti si disposero in cerchio, cercando di non far mai toccare terra al pallone.

I rimbombi salivano verso il cielo.

Enzo e Tonino avevano lavorato due settimane per cucire il pallone. L’idea era stata di Tonino, che nella bottega del padre di Enzo aveva cominciato per puro caso – sistemando la cassetta degli attrezzi – a mettere intorno a una palla di carta delle strisce di cuoio avanzate, lasciate a terra. Era riuscito a cucirne una piccola intrecciando tre lembi. Quando l’aveva mostrata a Enzo gli occhi si erano illuminati e subito avevano disegnato il modello: lo avrebbero realizzato scuro, di cuoio lucido, con le cuciture sottili, quasi nascoste e uniformi per non farlo sembrare un pallone fatto con le pezze.

La scuola era finita da tre settimane, ogni pomeriggio trascorrevano delle ore nella bottega del padre di Enzo, lo aiutavano a tagliare, ammorbidire, sistemare la pelle per le scarpe, i guanti o per i pezzi delle borse. Don Tommaso Iodice assegnava loro dei compiti, gli dava orari, li faceva sentire membri di quella piccola bottega che nella sua esaltazione sarebbe diventata in poco tempo una piccola fabbrica. Anche l’esaltazione di Tonino quando stringeva i punti era tanta. Ogni pomeriggio, sorseggiando il fondo del caffè rimasto, don Tommaso Iodice guardava ammirato il suo lavoro, diceva che era un artista e che avrebbe fatto una grande fortuna. Prima di cena chiedevano a don Tommaso di restare ancora un poco, e in quei momenti si mettevano veloci ad assemblare il pallone. Sarebbe stata una sorpresa per tutti.

Quando avevano raccontato a Vittorio e agli altri che il giorno dopo avrebbero portato un pallone di cuoio vero, tutti si erano emozionati; però poi avevano immaginato che fosse una bugia, un’invenzione di Enzo, così erano tornati a giocare alle sette pietre impilate in equilibrio sopra il muretto. Con un calcio Enzo gliele aveva buttate a terra e prima di andarsene aveva dato appuntamento a mezzogiorno nel palazzo abbandonato di vico Carrette.

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