Alessandro Baricco: “Dal sesso all’ammalarsi, col tempo mi è venuto tutto meglio. Gaza? Sto con i giovani in piazza”

Alessandro Baricco è stato in discoteca a fare una lezione, a braccio, sulla musica classica, tema del suo ultimo libro pubblicato da Feltrinelli. Non riesce a restare nei confini di ciò che "si deve fare". E così, invece di chiudersi in una libreria o in un circolo, preferisce una discoteca storica situata su uno stradone di Jesolo. È lì che lo incontriamo poco prima di questa "Serata eretica", come l'ha chiamata, rifacendosi al titolo del suo libro "Breve storia eretica della Musica Classica" (Feltrinelli Editore). Ci sediamo su due divanetti che ballano, con il riscaldamento che fa da rumore bianco continuo. Eppure, nonostante sia tardi e la serata sia lunga, lo scrittore non si fa alcun problema a passare dalla musica a Gaza, passando per i giovani, l'intelligenza artificiale, la fede e la morte.
In fondo è sempre stato il tuo lavoro: tentare di spiegare la complessità del mondo a un pubblico ampio. Raccontare le mutazioni di questo mondo in una maniera tale che fosse accessibile a quante più persone possibile. Non lo ha sempre fatto col vento in poppa, anzi. Spesso ha dovuto lottare contro i detrattori, ma erano tempi in cui ci si batteva per queste cose, lo si faceva anche in maniera intellettuale, quindi aveva un senso diverso. Oggi è assolutamente più pacificato, ma non meno interessato a ciò che gli accade attorno e alla ricerca della prossima mutazione da raccontare, da anticipare, da scovare per cercare, ancora una volta, di anticipare il dibattito nazionale. Ma partiamo dalla fine, ovvero da questo libro e questa serata particolare (di cui qui trovare un resoconto).
Siamo a IlMuretto, discoteca di Jesolo per raccontare la musica classica… Ti senti un ponte tra cultura alta e popolare?
Molti anni fa ho smesso di vedere quel confine. Aver sfiorato maestri come Umberto Eco o Gianni Vattimo ti cancella proprio la domanda. Non sono qui per mescolare "alto" e "basso": per me questo è un luogo di emozione, di corpi, di musica, di cervelli che si spengono un attimo per lasciare andare altre cose. Punto. Versare dentro questo luogo una storia come quella della musica classica, per me, non fa differenza. E non è una cosa nuova: quando facevamo a "Totem Joyce", non ci sembrava di fare "cultura alta". Quel pezzo lì era ritmo puro.
L'idea di sacrificare un po’ di qualità per rendere tutto più fruibile, portare la cultura a tutti, è ancora un obiettivo? Come è cambiata questa cosa rispetto ai tempi dei Barbari?
Quella è una mossa che gli umani fanno spesso: ridurre per rendere più forte. Nella storia della musica classica succede un paio di volte in modo incredibile. Ma non c’entra col "portare la cultura", che è una descrizione di un mondo che non c’è più. Siamo dentro un fiume: c’è chi galleggia e ci sono cose che affondano. Se vuoi andare col fiume, devi andarci con ciò che può galleggiare, senza fare troppo il difficile. Bisogna credere nella corrente dei fiumi: non dobbiamo pensare di essere più furbi del tempo e della civiltà in cui viviamo. Che alcuni vogliono buttare via tutto, poi arrivo io – ma chi sono io? – che penso di aver capito che bisogna salvare certe cose. Quelle persone lì, sinceramente, non sto molto ad ascoltarle.
Negli anni, però, hai "salvato" tanti giovani: eri con i global a Genova e oggi parli di Gaza come del nome di un certo modo di stare al mondo. Per cosa vale la pena scendere in piazza oggi? E per cosa pensi sia giusto combattere, oggi?
Per troppe cose, purtroppo. Gaza, come il Vietnam tempo fa, è diventata un simbolo. Secondo me è stata presa come simbolo per un’umanità che ha riconosciuto in quel confine qualcosa che non si poteva oltrepassare, mentre la razionalità militare americano-israeliana ha pensato di sì. E per le élite del secolo scorso quella barriera era ampiamente sorpassabile. Quando vedi una dissonanza scandalosa tra l’idea di civiltà per cui ti svegli ogni giorno e quella che alcuni con potere declinano quotidianamente, vai in piazza e dici: "No". Poi ognuno sceglie il proprio modo: puoi distruggere una banca, puoi scrivere, fotografare, scendere in piazza col tuo corpo e fare resistenza. Io su questo non ho grandi convinzioni, non riesco a condannare quasi nessuno, anche se dovrei essere capace. Alla fine: è un modo per dire "Noi non siamo così". Nel mio ecosistema – come amo, insegno, lavoro, scelgo i colori con cui mi vesto, la musica con cui cammino – quella roba lì non esiste. Non apre nemmeno un dibattito.
Su Gaza si discute se sia genocidio o no. Tu come la vivi?
È una vecchia tecnica del Novecento: inchiodare la ribellione su una parola.
Come dice Omar El Akkad in "Un giorno tutti diranno di essere stati contro", non si usa quella parola perché in caso contrario obbligherebbe i Paesi a intervenire. E non lo vogliono.
Si blocca tutto sulla parola, così anche il più ottuso può giudicare. Ma il mondo non è così semplice: è fatto di nubi che si spostano. Se tuo figlio ti chiede: "È giusto o sbagliato?", non puoi rispondere: "Dipende". Questo è il ‘900 che ha fatto disastri: invasioni, aggressioni. È un modo per guadagnare tempo e non fermare ciò che accade. I nuovi vivono in un mondo dove i nomi sono mobili, diventano, spariscono, muoiono, si incrociano. Loro vivono così e avranno pure diritto di dirlo.
A proposito di relitti del Novecento: alle fiere del libro si discute se condividere o no gli spazi con fascisti o apologeti. Tu come la vedi?
Non è un tema su cui mi sento particolarmente intelligente. Però ho visto Canfora – che è un padre, un saggio, con un'innocenza enorme rispetto a questi temi – dire: "Ma cosa state dicendo?". E l’ho pensato anch’io. Chi è "nazista"? Che vuol dire? Ricominciamo col dibattito sulla parola. Io non avrei né paura né fastidio. Dopodiché è un tema per cui non credo di essere il più intelligente nella stanza. Quando vedo gli altri prendere posizione, qualche volta mi chiedo se dovrei farlo anch’io. Ma il mio istinto è: non ho problemi. Mi sembra più un problema loro che mio.

Alla fine del pamphlet su Gaza scrivi: "Se questo testo vi piace, diffondetelo. Se vi piace molto, traducetelo, prima che lo faccia l’IA, e fatelo girare". Mi parli dell’IA? Che influenza può avere sul racconto del mondo e sulla figura dell’intellettuale?
È un tema immenso, è come chiedermi qualcosa su Dio. Non che l'AI sia Dio, ovviamente. Posso dirti solo che il nome è sbagliato: "intelligenza" crea un sacco di equivoci.
Tu hai sempre guardato un attimo dopo, come in "The Game" o nei "Barbari": qual è la mutazione che pensi dovremo affrontare?
In The Game, quando ho fatto la mappa di tutto ciò che era accaduto, l’ultima terra inesplorata era proprio l’intelligenza artificiale. Era chiaro che sarebbe stato il passaggio successivo. Siamo sul bordo di un nuovo continente. Sarà un rito di passaggio molto importante, da affrontare con attenzione e rispetto.
Tu la usi?
Sono gli umani a non usarla. Ed è questo uno degli equivoci: c’è un enorme dibattito su qualcosa che, di fatto, quasi non esiste. Oggi, per ogni 100 dollari investiti in IA – e non c’è nulla su cui si investa di più – quanti ne tornano indietro? Due. Questo significa che, nella pratica, l’IA non esiste ancora: non la usiamo davvero.
Quindi cos’è davvero l’IA?
L’IA è soprattutto un mondo possibile, che abbiamo tutto il tempo di scegliere, regolare e costruire collettivamente. È un passaggio di crescita, come diventare adulti. Ci permette di costruire un’immagine di noi stessi: chi siamo, cosa temiamo, cosa desideriamo. Possiamo demonizzarla e lasciarla a chi vuole farci soldi, oppure riconoscere che questo è il momento giusto per trovare una nuova maturità per cui potremmo essere ricordati nei millenni.
Dobbiamo temerla?
È completamente nelle nostre mani: non esiste alcuna possibilità che un robot ti chiuda in una stanza e ti dica "Se non mi scrivi un racconto non ti do da mangiare". È fantascienza pura. La vera preoccupazione è il controllo dello strumento: siamo impreparati e lo stiamo lasciando a pochissimi.
È tutto nelle mani dell'uomo, come quando l'introduzione del pianoforte (anzi, del "fortepiano") scatenò una rivoluzione.
Ecco, lì la musica divenne adulta. Possiamo discutere se quel passaggio sia stato positivo o negativo, quanto si vuole. Ma non esistono passaggi "buoni" o "cattivi" quando gli esseri umani inseguono la bellezza, l’espressione, l’equilibrio. Non puoi dire "sei cattivo": puoi dire "non hai più i miei modi", questo sì. Quello che conta è che, nella storia, ci sono momenti o strumenti che aiutano gli esseri umani a compiere una svolta. Come il maestro delle elementari che riesce a far capire al "pirla" che credevi di essere che, in realtà, non lo eri affatto. La rivoluzione digitale è stata qualcosa di simile, e l’intelligenza artificiale ne rappresenta la manifestazione più alta.
Dicevi che per reggere la globalizzazione serviva intuire un mondo nuovo. Sono passati vent’anni: quell’intuizione è arrivata?
Quando ne ho scritto, la globalizzazione era un’ipotesi. Le élite stavano cercando di convincere il mondo che fosse il modello giusto. Ci sono riusciti. Come molti cambiamenti, ha espresso cose gravissime e cose molto interessanti. A quel punto come puoi giudicare? Sono situazioni abbastanza fluide in cui decide la qualità delle classi dirigenti: se sono mediocri, quella roba gira in modo mortale – come accadde prima della Prima guerra mondiale. Secondo me, con la globalizzazione ci è andata così così: è stato un extra time concesso al neoliberalismo, l’ultima – per adesso – metamorfosi del capitalismo. Ha aiutato molto "loro", ma lì dentro c’è anche roba interessante. Sta a noi leggere le righe giuste.
Come si diventa adulti senza avere paura del cambiamento?
Bisogna tornare alla memoria e ricordarsi com'eravamo a 16, 20, 25 anni. Avevamo paura di non vivere abbastanza, di non essere noi stessi, di non essere all’altezza. Ma non del cambiamento. Il cambiamento era la vita. Quindi, per rispondere alla tua domanda possiamo dire che c’è un pezzo di umani che teme il cambiamento e un pezzo che non lo teme. I secondi diventano adulti. Se saranno il 51%, il mondo diventerà adulto.
Hai parlato spesso di corpi. Com’è cambiato il tuo rapporto col corpo?
Ho scoperto che il corpo arriva un quarto d’ora prima del resto. Io ero un ragazzino cerebrale, facevo un mestiere mentale, come lo scrittore. Poi ti accorgi che il corpo arriva prima, si spezza prima, manda messaggi più sofisticati della mente. Solo che non lo usiamo come sistema ricettivo, anzi, io non l'ho usato così. Vabbè, ovviamente mi sono anche divertito. Ho passato gran parte della vita a cercare di non farlo pesare troppo. Tutto ciò che si fa col corpo – dal sesso all’ammalarsi – mi è venuto meglio nella seconda parte della vita. L’ho lasciato andare.
A un certo punto della tua vita hai perso la fede. Come accade? E come cambia la vita?
A un certo punto sono diventato un po’ più adulto. Ho mille volte benedetto il fatto di essere passato da lì: lascia una formazione. Forse se ho impiegato mezza vita ad accorgermi che avevo un corpo è perché venivo da quell'esperienza, da un mondo in cui del corpo si parlava in un certo modo. Ma per diventare adulti, a un certo punto, ne esci.

E come ha cambiato il rapporto con la morte?
Quando avevo la fede non avevo il senso della morte, perché ero giovane. Quindi non so com'è viverla da credente.
Hai parlato dei tuoi maestri. Oggi tu sei un maestro: che effetto ti fa?
Mi è piaciuto molto esserlo a 35, 40, 45 anni, quando ho aperto la Holden. Ora molto meno. Capisco che accade, ma mi emoziona meno.
C'entra il discorso sull'arroganza di quegli anni?
No, non c'è alcun nesso. Era più bello essere maestro a 40 anni. Adesso, per carità, ci sono cose più brutte. Essere maestro è diventato quasi un passo quotidiano: sei quella cosa lì, punto. Ci sono cose che oggi, in questo pezzo della mia vita, mi rubano l'allegria.
Quali sono queste cose?
Non lo dirò mai (ride, ndr).
Ho l’impressione che nell'arte – scrittura, musica – da giovani si sia sempre "migliori", che l’esperienza conti meno. I primi dischi, i primi libri… C’è qualcosa di vero?
C'è qualcosa di vero, sì. Mi sembra di aver capito questo, ma non è riferito a me: per essere davvero bravi quando hai una certa età, e per fare cose veramente forti, devi essere uno di immenso talento. Essere bravi da giovani succede. Esserlo da vecchi presume un talento mostruoso.
Tu hai sempre avuto una passione che hai sviluppato in tv, nei libri, e la musica classica è spesso stata un filo rosso per raccontare le cose. Perché c’era bisogno di "Breve storia eretica della musica classica"?
È una storia da raccontare: la storia incredibile della musica classica, che è incredibile. Come hai ricordato, è una vita che ascolto quella musica, la studio, ne scrivo, l'ascolto, me la faccio insegnare. Quindi mi è sembrato che fosse arrivato il momento di raccontarla. Non era necessario farlo, ma ho capito che mi sarebbe piaciuto moltissimo. Perché è una storia di umani europei, durata quasi duemila anni, e dentro c’è il DNA di ciò che siamo: inanella talenti mostruosi, ricchezze incredibili, gare, partite, sfide, crolli, morti, eroi. È una storia che, se hai un figlio, ti viene da sederti con lui e raccontargliela. A un certo punto mi sono detto che avevo più o meno tutti i pezzi per farlo.
E qui siamo al Muretto di Jesolo perché hai deciso di fare una presentazione un po’ sui generis. Perché una discoteca?
Non una discoteca: la discoteca. Un tempio. L'ho scelta perché è una storia talmente bella che non va raccontata solo alla Società del Quartetto di Milano, a chi la musica classica la ascolta da anni. E poi è una versione un po’ eretica, e se la racconto io, qualcuno dirà: "Non è proprio quella che si racconta di solito". Non perché me la invento, ma perché i tempi sono cambiati e oggi possiamo vedere cose che prima non si vedevano. Parlare di musica classica deve smettere di essere una cosa da circoletto. È una materia incandescente, una storia formidabile.
E perché proprio al Muretto?
Perché per me, per conservare un'emozione, una meraviglia in quello che faccio, è diventato indispensabile farlo in luoghi "dissimmetrici" rispetto alla cosa stessa. Mi fa bene. Succedeva anche alla Scuola Holden: uscire dalla tradizione mi permette di respirare. Se devo presentare questo libro al Circolo dei Lettori con due musicologi, io non sto bene. Sarò anche un po' snob, però vorrei chiedere comprensione: faccio questo mestiere da tanti anni e so che così la meraviglia non sopravvive.
Non perdi mai di vista il bello delle cose: sei ottimista di natura?
È una vita che cerco di convincere la gente intorno a me, compreso me stesso, che non sono ottimista, ma realista. Vedo cose che molti pessimisti non vogliono vedere perché gli disturbano la vita. Io le vedo, le voglio vedere. Poi non sarà sempre così, ma l’ottimismo non c’entra. Chiamarlo ottimismo è come dare del pirla a uno. Non puoi dire a Nelson Mandela – ovviamente non faccio paragoni – sei ottimista, perché lui ha visto che nel suo paese potevano convivere bianchi e neri, dai. Questo è realismo.